I testi e le informazioni sulla storia di Regalbuto sono stati tratti in parte dal libro "Itinerari Storici di Regalbuto" di Armando Monaco e Vito Venticinque. Gli autori hanno autorizzato la pubblicazione di tali dati. A loro va il ringraziamento dell'amministrazione comunale e della cittadinanza tutta.
Dalla preistoria ad Amiselon
Sino a qualche tempo fa era opinione comune che la presenza dell'uomo nel territorio di Regalbuto coincidesse con l'ingresso nella storia della Sicilia e, cioe', al tempo della colonizzazione greca.
Recentemente, invece, il continuo ritrovamento di reperti fossili ed utensili del paleolitico e del neolitico siciliano in varie aree del territorio regalbutese modificano idee ritenute ormai acquisite, costringendoci a riconsiderare sotto nuova luce alcuni discussi problemi: quali ad esempio quelli relativi alla colonizzazione dei greci e ai loro rispettivi insediamenti nel nostro territorio.
Questi ritrovamenti, rinvenuti sui terrazzi fluviali del medio e basso corso del Salso, purtroppo si sono in parte perduti a causa della costruzione dell'invaso del Pozzillo; tuttavia l'opera di alcuni archeologi ed appassionati ha permesso l'individuazione di numerosi giacimenti con risultati che hanno dato la possibilita' di rilevare alcune caratterizzazioni e connessioni culturali interessanti per tutti gli studiosi di preistoria.
Certamente un piu' ampio panorama di ricerca urge per poter ricostruire con sicurezza l'ambiente nel quale i nostri antenati vivevano.
A questo proposito, senza dubbio, significativi sono per una migliore ispezione delle nostre conoscenze, i ritrovamenti di frustuli ceramici di tipo stentinelliano rinvenuti nella contrada di Tamburino, in localita' .Piano Nero (oggi custoditi nel museo di Adrano) e i ritrovamenti presenti in tutta una serie di grotte nella dorsale di monte Porticella, nella contrada di Piano Arena, ecc.
A queste localita' bisogna associare i ritrovamenti della contrada Zorie sulla via di Centuripe, di monte Lorito, di Stupari Savarino, della contrada Sparagogna e altre. Le zone ci sono note per l'opera devastatrice dei tombaroli, per rinvenimenti casuali, e dalle dichiarazioni di alcuni "collezionisti privati", delle cui asserzioni, sia sulla provenienza dei reperti, sia sulla modalita' del loro ritrovamento, e' pertanto legittimo dubitare. I dati raccolti negli ultimi anni attestano comunque l'esistenza di piccoli insediamenti umani di epoche diverse diffusi per il territorio.
Infatti tracce di frequentazione umana, a carattere sparso; e databili dalla prima eta' dei metalli al periodo tardoromano, si sono riscontrate un po' ovunque nel territorio di Regalbuto.
Checchi ne sia di queste localizzazioni, non possiamo fare a meno di citare l'arca archeologica situata sul monte S. Giorgio che, per la vastita' della sua estensione e per l'importanza dei ritrovamenti, e' sicuramente la piu' interessante fra tutte.
Non e' certo che il sito fosse occupato dai Siculi al momento dell'arrivo dei Greci, benchi non manchino segni e resti indigeni misti ai primi resti greci. Dall'insediamento emergono quindi m caratteri di un centro indigeno piu' o mena ellenizzato (coabitazione?). Sfortunatamente, la vicinanza del luogo all'abitato moderno e la sua estrema accessibilita' hanno permesso una sistematica devastazione della zona che si perpetua da ben due secoli, mentre nessuno studio scientifico e serio e' stato mai effettuato.
I pochi dati a nostra disposizione testimoniano l'esistenza d'un centro abitato a partire dalla meta circa del secolo VI al sec. III a.C. circoscritto all'altipiano da una cinta murata, i cui resti sono stati distrutti in tempi recenti.
Sporadici rinvenimenti del perioda ellenistico e romano si sono avuti anche intorno alle falde del monte e nelle zone vicine ad esso: mentre nella zona antistante, sul declivio di monte S. Calogero, e' ipotizzabile, ma pochi in verita' sono gli indizi, una fase medievale databile nel XI-XIII secolo. Anche se oggi vi e' un consenso generale riguardo all'identificazione di questo grosso centro con l'antica Amiselon resta in ogni caso aperto il problema sull'origine della fondazione e d'una eventuale partecipazione di gente greca ad essa.
Non essendoci, infatti, fanti dirette sulla provenienza dei fondatori, scrivere la storia d'un fenomeno arcaico, basandosi sull'accidentalita' e frammentarieta' delle fonti antiche e contemporanee sarebbe ovviamente presuntuoso.
Ne' ci e' di molto aiuto il sapere con certezza che anni or sono, durante dei lavori di dissodamento del terreno, alcuni contadini hanno trovato e distrutto una lastra in pietra interamente ricoperta di graffiti o segni epigrafici.
Non possiamo quindi, almeno per adesso; servirci della paleografia per scoprire la natura del sito di monte S. Giorgio, ne' di studi archeologici attendibili, per cui dobbiamo attenerci per ricostruire gli eventi, anche in linee molto generali, alla vecchia letteratura storico-archeologica, non dimenticando tuttavia che le cognizioni desunte dalle fonti contemporanee ed arcaiche sono assai poca cosa.
Per quanto ci riguarda, la fonte piu' antica ed autorevole e' quella di Diodoro Siculo: ad essa si riallacciano, citandola, pur nella pluralita' delle loro opinioni, la maggior parte degli storici. Afferma Diodoro che Gerone durante la guerra contro i Mamertini, dopo aver distrutto la citta' di Mile, procedette verso l'interno della Sicilia, dove i Mamertini avevano numerosi presidi, conquistandoli.
Il piu' meridionale fra essi era Amiselon che, posto tra Centuripe ed Agira, rendeva malsicure le comunicazioni tra queste due citta. Gerone la conquisto' (nel 270 circa a.C.), ne distrusse le mura, accolse nel suo esercito i soldati che la presidiavano e divise il suo territorio, donandolo alle citta' di Agira e di Centuripe.
Cluverio, poi, parlando del nostro paese ("splendido tra le prime citta di Sicilia"), sembra accettare la tradizione diodorodea, stabilendo addirittura l'anno di fondazione di Amiselon nel 420 a.C..
Successivamente afferma pero' (Siciliae antiquae ecc., lib. 2, cap. 8, pag. 408), d'accordo col Ventimiglia, che si tratta della citta' di Simeto, o per meglio dire per lui Amiselon e Simeto sono la stessa citta, asserendo che il nome tramandatoci dal testo di Diodoro e' sbagliato, dovendosi leggere, a suo dire, non tis 'Aptlap-kov bensi to' EvptaOov.
In questo parziale cambiamento d'opinione del Cluverio confluiscono chiaramente tradizioni non diodorodee (Plinio, Naturalis Historia, lib. III, Cap. 8, pag. 91, C. Mahoff, Lipsiae 1897), a cui per altro si rifanno, in diversa misura, altri storici: come l'Arezio, il Maurolico, il Fazello e il Ferrario, che parlando di Regalbuto la identificano con Alceo o Alicia (gli studiosi moderni sono dell'avviso che Halicyae sia da identificare con Salemi). Il Riccioli, invece, rifacendosi a Tolomeo asserisce che si tratta dell'antica citta' di Ergenzio o Sergenzio, che l'antico geografo pone tra Agira, Centuripe e Mene. Evidentemente, in base alle considerazioni gia fatte, non si puo' attribuire un valore specifico a queste affermazioni; esse possono tutt'al piu considerarsi come punti approssimativi di riferimento per fissare molto genericamente nel tempo le circostanze in cui poti sorgere l'abitato di monte S. Giorgio. Pertanto necessariamente aperte per carenza di dati sono le nostre conclusioni; ma il quadro che emerge dall'esame degli antichi storiografi e dei moderni studiosi ci si palesa, come s'e' detto, sostanzialmente concorde nell'identificare il sito di S. Giorgio con l'Amiselon di Diodoro Siculo. Se cosi e', sorge spontaneo chiedersi che accadde nell'habitat dell'Amiselon diodorodea dopo la sua spartizione tra Agira e Centuripe? Come si sviluppo' e trasformo' il suo territorio fino alla nascita araba di Rahal-Butahi?
Dagli insediamenti bizantini al Casale di Butahi
Morta l'antica citta', con la sua articolazione sociale complessa, possiamo ipotizzare, nel periodo romano, come gia in precedenza abbiamo avuto modo d'accennare, la nascita di cellule economiche funzionali a struttura aperta. e non gerarchizzata: cioh il territorio e' coperto da una serie di poveri abitati rurali che non potevano evidentemente lasciare grandi tracce.
Questa situazione si perpetuera' fino al periodo bizantino, quando assistiamo addirittura al recupero d'insediamenti in "grotte", probabilmente gia usati in precedenza e poi abbandonati (S. Antonino, Setalu', "Le grotte", Grotta dei ladri, ecc.). Le dimore bizantine erano delle abitazioni scavate principalmente nella roccia, in diversi ordini di piani, per questo definite "grotte" nella toponomastica locale. Queste sedi, raramente isolate, sorgevano qua e la nel nostro territorio, in luoghi di difficile accesso e a gruppi poichi, in questo modo, le piccole comunita' potevano difendersi e organizzare meglio la loro esistenza.
Le attivita economiche' e l'organizzazione sociale si reggevano sulle disposizioni delle comunita' monastiche (basiliani?), che possedevano vasti possedimenti e adibivano ai lavori in regime feudale le masse rurali. Ai grandi feudi erano riservate le terre piu estese e redditizie, mentre i piccoli e medi proprietari erano costretti, per sopravvivere, ad integrare con l'allevamento degli ovini i magri guadagni dei terreni meno produttivi.
E' da osservare come questi abitati rurali, caratterizzati da un vivace spirito religioso e da un'economia agricola di pura sussistenza, vanno a disporsi tra le disponibilita' d'acqua ed i campi, replicando uno schema tipicamente orientale, che implica la diffusione delle colture irrigue gia prima dell'occupazione araba. In seguito all'occupazione musulmana della Sicilia - che non fu facile e priva di sofferenze - parte di queste comunita', anche se fortemente emarginate, riuscirono a sopravvivere; e di certo non possiamo postulare, dato che le nostre informazioni dirette ed indirette sono minime, che tra queste ci fossero gli insediamenti bizantini di Regalbuto. Indubbiamente la dominazione araba ebbe un'influenza profonda e duratura nel nostro territorio, come la toponomastica regalbutese ci dimostra; ma tale influenza non fu soltanto il ri sultato dei due secoli e mezzo di permanenza degli Arabi in Sicilia ma anche dell'arabizzazione che continuo' in era normanna in forme e modi che si ripetono in molte zone del territorio siciliano. Per di piu la natura e la durata stessa della conquista saracena provocarono inevitabili conseguenze nell'habitat dell'isola, cambiandone profondamente il paesaggio.
L'effetto combinato delle confische dei grandi patrimoni pubblici e privati, dell'abbandono delle terre, della loro ridistribuzione ai vincitori musulmani, muto' inevitabilmente i rapporti di proprieta' e la situazione fiscale e favori la nascita di centri rurali minori, tra cui anche il "casale fortificato" (Rahl-Butahi) di Regalbuto. Esso sorgeva, secondo la tradizione e gli antichi storiografi, sul declivio della contrada "Monte"; sulla cima del colle fu costruita la "Rocca", sulle cui rovine venne eretta la chiesa di S. Calogero, oggi un rudere, che da il nome al monte.
Dato per scontato il toponimo d'origine arabo rahl "luogo di sosta, casale", del resto molto diffuso nella Sicilia medievale e che denota l'origine saracena della nuova fondazione, restano da rilevare le particolari condizioni geotopografiche dell'ambiente fisico in cui si formo' l'insediamento di ?a?a?_??ta. Il Casale, situato nel Val Demone (una delle tre antiche valli in cui fu divisa amministrativamente la Sicilia dagli Arabi), era un centro rurale che doveva contare un numero sparuto di fuochi.
E' da notare come dell'abitato formatosi intorno al colle e sormontato dalla torre di vedetta contro i potenziali nemici, non siano rimaste costruzioni. E' quindi probabile che sulla spianata, posta in cima all'altura, siano stati eretti baraccamenti o comunque edifici fatiscenti. Ricordiamo inoltre che il sito, verosimilmente recintato con muri a secco fatti con ciottoli, era un avamposto fortificato posto a difesa d'un incrocio stradale, punto di passaggio obbligato d'una delle vie del grano della Sicilia antica, l'attuale statale 121, ed era anche stazione di cambio di mezzo vettore. Sorge spontaneo domandarsi a questo punto se esistesse ancora un'etnia indigena all'interno o accanto a quella araba, in seguito alla venuta dei Saraceni nella nostra zona e quale rapporto tra stabilita e mutamento si sia avuto non solo nella toponomastica ma anche nell'habitat regalbutese. Infatti il rinnovamento toponomastico d'un centro abitato non significa, di per si, una frattura della continuita' d'un insediamento abitativo; per essere sicuri di cio' dovremmo disporre d'una minuziosa analisi toponomastica e archeologica, ma studi del genere ancora non esistono. In linea di massima si puo' dire solamente che abbiamo avuto degli spostamenti del sito abitato, all'interno del territorio, in funzione delle condizioni economiche e di sicurezza del luogo.
Ora, pur concedendo l'antica preesistenza indigena, rimane intatta la circostanza che durante la campagna normanna per la conquista della Sicilia il paese di Regalbuto e', senz'ombra di dubbio, saracino come attesta la donazione del 1087 da parte di Ruggero alla chiesa di Messina del casale di Butahi. Questo documento oltre ad assicurarci l'origine araba di Regalbuto, sulla quale tutti gli storici concordano, fa emergere altre interessanti considerazioni di carattere sociale. E' evidente che il casale di Butahi fosse amministrato secondo le "antiquas divisiones Saracenorum" (ma lo stesso diploma recita che se in avvenire in esso o nelle sue pertinenze fossero state erette delle chiese, esse sarebbero state sottoposte al solo arcivescovo di Messina. Da cio' sembra emergere che l'arcivescovo avesse la facolta' d'impiantare delle chiese nel casale di Regalbuto anche se il centro era, etnicamente, arabo-musulmano. Questa ipotesi e' confortata da un testo, anche se poco chiaro, citato dal Collura e da numerosi altri diplomi da cui si evince che la costruzione delle chiese nei casali fosse dovuta al feudatario;
per di piu' da questi stessi documenti risulta che spesse volte le chiese venivano erette in centri del tutto abitati da saracini. Lo scopo di quest'attivita' di erezione di chiese, che si trovavano ad officiare in partibus infidelium, sembra essere non tanto il proselitismo religioso, quanto piuttosto la rappresentazione tangibile del potere e del prestigio dei vincitori. Cio' ovviamente finiva per avere effetto nel tempo, favorendo le conversioni al cristianesimo degli Arabi, ed una migliore disposizione verso gli immigrati cristiani che arrivavano nei loro borghi.
Gli Arabi convertiti, infatti, non abbandonavano solamente una religione per un'altra, ma s'inserivano in un contesto culturale nel quale il modello dotato di maggior prestigio era, sempre piu, quello occidentale.
Questo fenomeno, assieme ad altri che esulano dalla nostra trattazione, accelero' la cristianizzazione dei casali arabi siciliani tra cui, come numerosi indizi sembrano indicare, anche quello di Regalbuto.
II quartiere "Saracino"
E' senz'altro, tra i quartieri storici, il piu vasto del paese. Esso iniziava dall'odierno quartiere di S. Lucia' e, costeggiando la chiesa di S. Giovanni, si sviluppava lungo la via Garibaldi per terminare nell'attuale contrada di S. Domenico. Malgrado gli sventramenti effettuati subito dopo la grande guerra (1915-18), quali ad esempio quelli compiuti per l'ampliamento di via Garibaldi, il suo successiva riassetto urbanistico e i recenti episodi di abusivismo edilizio, esso e' riuscito a mantenere, sostanzialmente, l'impianto urbanistico che gli diedero i Saraceni quando vi si trasferirono.
Gli edifici, addossati l'un l'altro, sono spesso collegati tra loro da archetti e passaggi sotto i quali si snodano vicoli, stradine scoscese, scalinate. Gran parte della popolazione di questo quartiere fino a pochi decenni or sono basava le proprie risorse quasi esclusivamente sulle attivita agricole e pastorizie: attivita' che hanno perpetuato nei secoli consuetudini ed esigenze particolari, proiet-tandole sull'architettura.
Cosi spesso vediamo che le case sono state caratteristicamente coordinate attorno ad un'area chiusa detta "azikka": vicolo cieco riservato ad una o piu' famiglie dello stesso clan che, unite in comunita', svolgevano qui tutti quei lavori necessari a soddisfare i bisogni di ognuna di loro. La struttura specifica dell'abitato era condizionata anche dal tipo particolare di produzione alla quale si dedicava la comunita', sia questa agricola, pastorizia od artigianale. Le abitazioni si affacciano lungo una strada principale detta "shari" o si articolano intorno a strade chiuse secondarie, con funzioni semipubbliche, dette "durub". Quasi sempre troviamo anche altri elementi comuni nell'architettura del quartiere: quali ampi ballatoi aperti utilizzati per l'esposizione e l'essiccazione dei prodotti agricoli, scale esterne in pietra, stalle e fienili preceduti da porticati, e tutte le coperture dei tetti costituite generalmente da canne poggianti su travature lignee ricoperte da coppi in terracotta. Infine la parte intonacata delle case e' spesso tinteggiata in bianco calce quando non e' lasciata completamente grezza. E' un tipo di tessuto urbano che rispecchia la concezione araba dell'abitare.
Nel mondo arabo le idee religiose, magiche, le considerazioni tradizionali e sociali precedevano ed accompagnavano la costruzione d'un edificio; a maggior ragione esse guidavano quelle comunita che, sprovviste di tecnici, partecipavano collettivamente alla costruzione d'una casa. Alla lealta' per l'Islam, concepita soprattutto in senso nazionale, come una specie di patriottismo confessionale, si mescolava (come anche oggi del resto) l'idea d'una fedelta' ad un sistema di valori sociali superiori.
La vita familiare (munalpahat), istituzione primaria del mondo arabo, si ritrova sottoforma di grande famiglia di tipo patriarcale. Questa struttura a egemonia maschile, accompagnata dalle vivaci relazioni sociali tra gli uomini (musarakat) e dalla subordinazione e clausura delle donne, era ed e' un tratto radicato nei popoli musulmani. Il "musulmano" resto' fedele a questo modo di costruire anche per ragioni ricolme di storia: per esempio la mancanza di sicurezza che regno' per molto tempo fece sorgere case come vere fortezze. Bisognava chiudere la casa dagli sguardi del passante, togliere la vista dalla strada, sorvegliare giorno e notte in modo da garantire e custodire la sopravvivenza della famiglia.
Sono valori d'un mondo tradizionale, idealizzato, con un ritmo flemmatico, calmo e pacifico nella sua vita quotidiana, con la sua riserva sessuale assoluta per le donne e limitata negli uomini. Un mondo quindi che se pur lontano dal nostro modo di vivere ha fatto parte, e non per poco, della nostra storia.
L'epoca normanna (1061-1194)
Ai fratelli d'Altavilla, Ruggero e Roberto il Guiscardo, per porre a compimento l'accordo di Menfi del 1059, con il quale il papa Niccolo' II in cambio dell'homagium e della fidelitas ri conosceva loro il governo sull'Italia meridionale, si imponeva la necessita di uno sbarco in Sicilia per portare a termine il loro impegno nella lotta contro gli infedeli e per la liberazione de "li Christiani et li catholici", cioh dei cristiani di rito greco e di quelli di rito latino che abitavano nell'isola occupata dagli Arabi.
Ma la conquista della Sicilia ad opera dei cavalieri Normanni non fu molto agevole. I primi contingenti sbarcati nell'isola costrinsero alla resa la citta di Messina nel 1061, ma soltanto trenta anni dopo riuscirono a portare a termine l'operazione con la resa nel 1088 di Castrogiovanni e piu tardi, nel 1091, di Noto: ultime roccaforti arabe in Sicilia.
Quest'impresa fu resa possibile dallo stato di completa anarchia in cui si trovata l'isola a causa delle lotte intestine fra i tre Emiri che si erano divisi i territori siciliani dopo la ribellione da loro attuata contro il Califfo di Kaironan. E fu proprio Ibn al Thumnah, l'emiro che controllava la Sicilia sud-orientale, a richiedere l'aiuto, nel febbraio 1061, a 'Ruggero contro l'Emiro di Castrogiovanni. Ma dopo un periodo di facili vittorie i Normanni non riuscirono ad occupare Centuripe, un centro fortificato da dove si poteva controllare tutta la pianura catanese, ni ad espugnare Castrogiovanni.
L'arresto del processo espansionistico e' da imputare non solo alle difficolta' nel ricevere nuovi contingenti armati, o ai contrasti allora sorti tra i due fratelli a proposito della ripartizione dei territori calabresi, ma anche all'estraneita' dimostrata dalle popolazioni cristiane dell'isola diffidenti nei riguardi dei Normanni noti per la loro estrema violenza e disumana ferocia. Fra le varie testimonianze in merito e' da ricordare la ribellione degli abitanti di Troina dopo che gli invasori non avevano esitato a saccheggiare le loro terre e le loro case.
Sebbene la conquista fosse stata violenta e spesso crudele, ad essa fece subito seguito la riconciliazione. Fu a questo punto che si dispiego' il genio politico ed amministrativo di Ruggero, il quale riusci ad accattivarsi i vari gruppi etnici presenti nell'isola rispettandone la religione, le leggi e i costumi. Infatti egli seppe conciliare le esigenze delle popolazioni, diverse negli interessi, nelle aspettative e nella lingua, creando un nuovo regno molto ben amministrato e ritenuto da tutti gli storici come una delle piu' prestigiose pagine della storia siciliana.
E' ormai sicuro che i Normanni giunti nell'isola non furono tanto numerosi: alcuni indizi provano che a differenza della conquista araba che si era presentata come una migrazione di massa la conquista normanna non fu un grande esodo ma una lenta infiltrazione di gruppi sparsi e diversi fra loro per provenienza, usi e costumi. E' proprio questo carattere minoritario della presenza normanna che costrinse Ruggero, al termine della guerra di conquista, a dover reclutare la propria classe dirigente fra le varie componenti etniche e in specialmodo a far ricorso agli elementi arabi e bizantini. Uri esempio tra i tanti e' la nomina a primo vescovo della Sicilia, liberata dagli infedeli, di un uomo proveniente dal nord: Roberto, al quale affido' la diocesi di Troina.
Le fonti storiche invece non ci aiutano a capire quali furono i criteri utilizzati in Sicilia per la confisca e la ripartizione delle terre. Molto probabilmente i Normanni usarono una mano pesante la dove avevano incontrato delle resistenze da parte delle popolazioni, e rispettarono le antiche divisioni della terra, che erano state operate dagli Arabi, nei restanti territori.
Il caso di Butah e' forse esemplare. Il centro era poco popolato, come si evince dalla denominazione di casale, ed i suoi abitanti erano tutti di origine saracena. Come afferma lo storico Goffredo Malatesta, il conte normanno non aveva fatto ricorso alle armi per la conquista del casale, e quindi non pote' estendere alle proprieta' dei Saraceni il diritto di conquista, ni pote' asservire per lo stesso motivo la popolazione alla gleba. Gli arabi abitanti di Butah erano semplici pastori ed agricoltori, e certamente erano dei piccoli proprietari che possedevano delle universit', cioh delle terre comuni dove poter condurre al pascolo i propri animali o raccogliervi la legna. Ruggero, cosi come fece nel resto dell'isola, per non alienarsi gli animi della popolazione cerco' di rispettarne le leggi, la religione, i costumi ma anche il diritto di proprieta'.
Di certo in base alla scarsissima e frammentaria documentazione si puo' affermare che la distribuzione delle proprieta fondiarie e dei territori avvenne in base alla forza contrattuale dei vari cavalieri che parteciparono alla conquista e che ebbe inizio prima della caduta di Noto. Gia nel 1077 Ruggero aveva donato dodici castra ad altrettanti cavalieri ed alcuni favori furono concessi ai rappresentanti della Chiesa romana, come il vescovo di Troina e il Monastero di S. Filippo di Demenna. Il problema dell'organizzazione e della gestione della conquista fu risolto da Ruggero I con la creazione di un sistema di potere signorile e feudale, caratterizzato da un tessuto di rapporti personali che garantiva ai cavalieri privilegi, prerogative fiscali, amministrative e giudiziarie.
In campo ecclesiastico la politica di Ruggero I e' contrassegnata da una netta opposizione nei confronti di chiunque volesse limitare o in qualche modo contrastare la sua autorita'. Era il tempo della grande lotta per le investiture e la Chiesa non tollerava nessuna ingerenza del potere civile nella scelta dei vescovi, ma non in Sicilia dove Ruggero nominava personalmente i vescovi, decideva il territorio di ogni diocesi e il loro numero, faceva delle donazioni dal suo tesoro privato alla Chiesa. Quando il papa Urbano II era venuto in Sicilia per ratificare il suo operato e, spingendosi oltre, aveva voluto nominare il vescovo di Troina legato pontificio dell'isola, Ruggero rispose facendo imprigionare quest'ultimo, riuscendo cosi ad ottenere l'annullamento della nomina. Nel 1098 ricevette da parte della Santa Sede, con una bolla pontificia, la concessione dei poteri esclusivi di legato apostolico in Sicilia e in Calabria. Ruggero riusci cosi ad unire il potere ci vile ed ecclesiastico in una sola persona. Quest'ultimo privilegio fu sempre contrastato dalla Chiesa; ma in caso di un suo ripudio, da parte del pontefice, in qualsiasi momento la monarchia avrebbe potuto con facilita ritirare le donazioni reali che costituivano la quasi totalita delle entrate della Chiesa locale.
Concessione del Casale di Butah da parte di Ruggero all'arcivescovo Roberto di Messina
Il re normanno Ruggero, dopo aver liberato la Sicilia dalla dominazione degli Arabi, fece delle donazioni ad alcuni rappresentanti della Chiesa romana. Alla Chiesa di S. Nicolo' di Messina e al suo arcivescovo Roberto diede il castello di Alcaria e il casale di Butah, abitato dai Saraceni. Una copia in latino del diploma i stata riportata dallo storico del seicento Rocco Pirro nella sua Sicilia Sacra:
"In nomine Sanctae et Individuae Trinitatis. Notum sit omnibus successoribus meis, et universis, quibus quandoque praesens privilegium manu ostensum fuerit, quod Ego Rogerius Comes Calabriae, et Siciliae post multas tribulationes, et angustias, atque pericula, quae pro eripienda Insula Siciliae a tyrannica potestate Saracenicae gentis, una cum Christianis fidelibus meis perpessus fueram, cum essem in Civitate Messanae una cum conjuge mea Adilayde, et filiis meis Goffrido, et Jordano, et cum multis baronibus et fidelibus meis, venit ad me Robertus Messanensium Episcopus, obsecrans et petens ut darem illi terras ad operandum circa Civitatem Troynae, qttarttm attxilio tam ipse, quam clerici sui, et servientes ecclesiae sustentari possent. Ego vero quoniam semper in animo meo proposueram Ecclesiam Messenae magnis possessionibus ampliare, multisque donis, et oblationibus ditare, eo quod cum post acquisitionem Siciliae translata sede Episcopali a Troyna in Messanam, primum Episcopum erexeram, praedicti Episcopi Roberti precibus aures inclinavi. Unde audita eius petitione pro salute animae meae, et fratris mei nobilissimi Ducis Roberti Guiscardi, a quo omnis honor, et gloria mea processit, et pro salute animae conjugis meae Adilayde, et filiorum meorum Goffridi, et Jordani, et omnium meorum fidelium dedi, et in perpetuum concessi Ecclesiae Sancti Nicolai Episcopii Messanae casale Saracenorum, quod dicitur Butahi cum omni tenimento, et pertinentiis suis secundum antiquas divisiones Saracenorum, ut sit praedictum Casale in potestate, et subjectione Sanetae Matris Ecclesiae Beati Nicolai Episcopatus Messanae in perpetuum. Sit autem praedicto Episcopatui Messanae Casale ipsum Butahi liberum, et absolutum, et non liceat alictti ecclesiasticae, vel secttlari pcrsonae fittttris tctnlporibtts aliqtzid juris, vel servitii in eo reqttiirere: sed sit proprium Sanetae matris Ecclesiae Beati Nicola j Episcopii Messanae. Et si contigerit in posterum casale ipsum a Christianis habitari, et Ecclesias in eo, vel in pertinentiis suis construi, Ecclesiae ipsae soli Episcopio Messanae stabjaceant, atqtte ab eodetyt Episcopo de christnate, et aliis ecclesiasticis ministeriis provideantttr. Tempus autem, quo praesens privilegium factum fuit, si quis scire voluerit, noscat eum anno Incarnationis Dominicae millesimo... scriptum, et factum fuisse. Contra quod quicumque sive de parentibus meis, sive alienis venire, et hanc donationem meam infringere tentaverit, excomunicetur a Patre et Filio et Spiritu Sancto, et faciem Omnipotentis Domini, nunquam videat3 nec'in Regno eius portionem habeat. Sed cum Juda proditore Domini aeternis incendiis concremetur".
Lo studioso afferma di averlo ripreso da una copia nel Libcr Regiae Monarchiae Regni Siciliae, compilato per disposizione del Vicerh Giovanni de Vega e che attualmente dovrebbe trovarsi presso l'Archivio di Stato di Palermo. Del medesimo testo ne esiste una versione in italiano curata dal reverendo Remigio Fiorentino e tratta dalla Storia di Sicilia di Tommaso Fazello e che qui riportiamo:
"A1 nome della Santa e Individua Trinita' - Amen. Sia manifesto a tutti i miei successori nelle mani dei quali verra mai per tempo alcun questo mio privilegio che io Ruggiero Conte di Sicilia e di Calabria dopo molte tribolazioni angustie e pericoli, che io insieme coi miei fedeli Cristiani ho sopportato per liberare la Sicilia dalla tirannide dei Saraceni, ritrovandomi nella citta di Messina con la moglie Adelasia e con i miei figliuoli Goffredo e Giordano e con molti altri baroni ed amici miei, venne a trovarmi Roberto Vescovo di Messina, pregandomi e domandandomi che io gli dessi alcune terre da lavorare intorno alla citta' di Troina, ond'egli potesse sostentare si medesimo e tutti quei Preti che servivano alla Chiesa. Ond'io che ebbi sempre in animo di arricchire la Chiesa di Messina con molte possessioni di aggrandirla con presenti, doni, ed offerte perchi io avendo levato il Vesco-vado di Troina, poichi io ebbi acquistato la Sicilia l'aveva messo nella citta' di Messina ed aveva fatto il predetto Roberto Vescovo di quella citta', mi piegai alle sue domande ed avendo intesa la sua petizione per salute dell'anima mia e del mio fratello il Duca Roberto Guiscardo, dal quale e' venuto ogni mio onore ed ogni mia gloria e per salute dell'anima di Adelasia, mia moglie e dei miei figliuoli Goffredo e Giordano e di tutti i miei fedeli ed affezionati amici ho dato ed in perpetuo ho conceduto alla Chiesa di S. Nicolo', che il Vescovado di Messina, il Casale dei Saraceni chiamato Butah con tutto il suo territorio ed appartenenze secondo le antiche divisioni dei Saraceni, e voglio che il detto Casale sia in perpetuo sotto la potesta e giurisdizione della Santa Madre Chiesa di S. Nicolo' Vescovado di Messina. Cosi io ho dato al predetto Vescovado di Messina il Casale di Butah libero ed assoluto; ni voglio che sia lecito ad alcuna persona ecclesiastica o secolare nei tempi a venire cercare alcun servigzo o fitto o vendita da detto Casale, ma voglio che sia libero della Chiesa del Beato Nicolo' Vescovado di Messina. E s'egli avverra mai che il detto Casale sia abitato da Cristiani e che si fabbricano Chiese dentro al Castello o nei luoghi d'intorno pertinenti a lui, voglio che quelle siano sottoposte al solo Vescovo di Messina e che da Lui elle siano provvedute d'olio santo e d'altri sacramenti ecclesiastici. E s'alcuno vorra' sapere in che tempo fu fatto questo privilegio, sappia ch'ei fu fatto e scritto nel MLXXX VII di luglio nella indizione decima. Contro il qual privilegio, se alcuno dei miei parenti od altri vorra' far cosa alcuna e vorra annullare questa mia donazione, sia scomunicato dal Padre dal Figliuolo e dallo Spirito Santo e non veda mai la faccia dell'Onnipotente Dio, e non abbia parte nel suo Regno, ma sia con Giuda traditore abbracciato nel fuoco eterno"
Si notano delle discordanze fra gli storici nel riportare la data di promulgazione del diploma e della traslazione del vescovado di Troina a Messina. Il Fazello per ben due volte, nella prima deca del libro secondo a proposito della citta di Messina e della Chiesa di San Nicolo', costruita dal re normanno, riporta la data del luglio 1080. Invece nella prima deca del libro decimo parlando della citta' di Troina afferma che lo stesso privilegio fu redatto il 7 luglio 1087. Fu un errore tipografico o un errore cronologico? Di certo lo storico degli Arabi Michele Amari, nella sua Storia dei Musulmani di Sicilia afferma che il vescovado di Troina fu fondato nel 1081 e traslato nella sede di Messina nel 1096 e quindi la donazione non sarebbe potuta avvenire prima di questa data. Invece il Vito Amico nel Dizionario Topografico della Sicilia ci informa che Ruggero aveva donato Milgis al vescovo di Messina nel 1085 e da cio' ne deriverebbe che il trasferimento della sede vescovile di Troina sarebbe avvenuto prima del 1086. Queste versioni contrastanti, da parte di vari eminenti storici, sulla datazione e cronologia di vari avvenimenti riportati nel diploma, portarono nei secoli seguenti i Regalbutesi ad impugnare l'autenticita del documento e a ricorrere al Tribunale del Real Patrimonio che nella sua sentenza, emessa il 15 aprile 1740, lo riconobbe falso e apocrifo.
II privilegio fu confermato dal sovrano normanno Ruggero II di Sicilia, nel maggio 1143 e nel giugno 1144; dall'imperatrice Costanza nel 1198 e dall'imperatore Federico II il 15 marzo del 1212. L'ultima conferma e' stata quella del 14 settembre 1347 fatta dal re Ludovico e cosi riportata dallo storico Rocco Pirro: "Eidem Archiep. Rex Donationem factam Casalis Butah, nunc Rayhalbuti, a Comite Rogerio, confirmavit, riservatis ornnibus regiis juribus" (Al medesimo Arcivescovo, riservati tutti i diritti regi, il Re confermo' la donazione del Casale di Butah, ora Regalbuto, fatta dal Conte Ruggero).
In base al trascritto diploma l'arcivescovo di Messina si ritenne per tanti secoli il Signore di Regalbuto, documento che gli permetteva di imporre tributi, di eleggere i magistrati, di eserci tare il mero e misto imperio, di riscuotere gli emolumenti delle dogane e di esercitare il diritto di compascolo sulle terre comunali, non soggette a decima, come primi cittadini.
Carattere della concessione del conte Ruggero
Ruggero, in qualita di sovrano, diede a Roberto, arcivescovo di Messina, la "potesta' e la giurisdizione sul casale di Butah con tutto il suo territorio ed appartenenze secondo le antiche divisioni dei Saraceni"; aggiungendo inoltre che "s'egli avverra' mai che detto casale sia abitato da Cristiani e che si fabbricano Chiese dentro al Castello o nei luoghi d'intorno pertinenti a lui, voglio che quelle siano sottoposte al solo Vescovo di Messina e che da Lui elle sieno provvedute d'olio santo e d'altri sacramenti ecclesiastici". Quindi il sovrano nel concedere la signoria a Roberto donava da una parte la facolta feudale di imporre tributi agli abitanti del casale, e dall'altra la possibilita di riscuotere dalla popolazione le decime dovute alla Chiesa in cambio dell'amministrazione dei sacramenti e degli altri servizi spirituali. Non si puo' nascondere quindi il carattere feudale e nello stesso tempo sacramentale della donazione. Le decime e le mezze decime si presentavano con un carattere personale e non dominicale in quanto non vi era un dominio da parte dell'arcivescovo di Messina sulle terre possedute dagli abitanti ma un diritto giurisdizionale. Erano un tributo feudale che ricadeva sulla persona e non sul fondo.
Lo conferma anche il dispaccio datato 1347 del re Ludovico che impose all'arcivescovo Raimondo De Pizcolis di non imporre nuovi tributi oltre la sola decima che erano soliti pagare i Regalbutesi.
Anche Ludovico Fulci nella sua opera Le decime con speciale riguardo alla Sicilia, afferma di "aver consultato tutti i documenti reperibili intorno alle decime che venivano pagate alle diverse Chiese in Siracusa, Catania, Aci, Regalbuto, Alcaria, Lipari, Patti, Cefalu'; Palermo e Monreale mi sono convinto che tutte erano decime ecclesiastiche non derivanti da dominio".
Le decime erano chiamate prediali in quanto venivano pagate in natura e avevano un carattere spirituale perchi dovute dalla persona che riceveva i sacramenti all'ecclesiastico che li sommi nistrava. L'entita' della decima veniva accertata da agenti della mensa arcivescovile nel mese precedente il raccolto e veniva pagata in proporzione alla quantita' probabile dei prodotti della terra. Gli arcivescovi di Messina si servirono di questa concessione del re normanno per poter imporre ai Regalbutesi il pagamento delle decime sui prodotti delle loro terre ed inoltre per obbligare i coloni a pagare le mezze decime sui terreni fuori territorio. Quest'ultime si presentavano, usando le parole de La Lumia, "come una delle piu tiranniche estorsioni della feudalita, la piu crudele e la piu' angarica delle ruberie che l'avidita' signorile seppe un quemai speculare". A testimonianza sono presenti nell'Archivio parrocchiale due scomuniche verso coloro che non pagavano i tributi datate una 28 marzo 1638 e l'altra 27 agosto 1654.
La distruzione di Butah e la costruzione di Regalbuto
Federico II di Svevia divenne re di Sicilia all'eta' di tre anni. Durante il periodo della sua minore eta singoli privati avevano usurpato titoli e diritti regi. Nel 1220, di ritorno dalla Germania, il sovrano volle riaffermare le leggi feudali: i vassalli dovevano presentare i loro titoli che potevano essere ratificati o aboliti, e qualsiasi concessione ottenuta nel periodo di interregno fu abrogata. Federico mostro' una certa autorita' in Sicilia dove si comporto' come un vero sovrano feudale. Fra le varie iniziative che prese va ricordata la revoca dei privilegi che erano stati concessi alla citta' di Messina e che erano incompatibili con il suo concetto di stato autoritario.
Nel 1232 Riccardo Montenegro, in qualita' di maestro giustiziere del regno svevo, impose dei dazi che restrinsero il libero commercio specie della seta. Queste misure furono avversate dalla popolazione messinese che si rivolto' nell'agosto dello stesso anno provocando la fuga dalla citta' del Montenegro. Altre citta' e comuni dell'isola si unirono nella rivolta, tra quest'ultimi anche Centuripe che tento' vanamente di resistergli. Il re svevo si reco' a Messina riuscendo ad avere ragione, senza alcuna fatica, dei rivoltosi, quindi si diresse verso Centuripe e sdegnato per la resistenza dei suoi abitanti, la cinse d'assedio e espugnatala ne rase al suolo l'abitato. I cittadini superstiti furono costretti a stabilirsi in una nuova patria cui fu imposto il nome altisonante di Augusta (Fazello dee. 2, lib. 8, cap. 2).
Tutto cio' fu fatto in quanto Federico credeva che la sua autorita' provenisse da Dio e ogni ribellione' essendo un peccato giustificava le pene piu' severe. Abbiamo voluto raccontare quest'episodio della storia siciliana in quanto il Fazello ci informa che i Saraceni di Butah parteciparono al fianco del sovrano svevo all'assedio e alla distruzione di Centuripe e in cambio ne ottennero la sua protezione. "Per tali servigi ottennero dall'Imperatore che al nome del loro paese fosse accoppiato il titolo di Reale, nominandosi da quell'epoca in poi Regalbuto". Sempre il Fazello afferma, nella dec. 1, lib. 10, cap. 2 della Storia della Sicilia che circa trenta anni dopo, nel 1261 sotto il regno di Manfredi, figlio di Federico II, gli abitanti di Centuripe ribellandosi al sovrano si portarono nel vicino comune di Regalbuto dandolo alle fiamme e distruggendolo sin dalle fondamenta. Come e' testimoniato dal Fazello e dal Pirro l'anno seguente, con il diploma del 12 settembre 1262 il paese fu fatto ricostruire dal re Manfredi.
Il nuovo abitato fu edificato "in un lato declive del medesimo colle (Fondo del Monte) scelto un terreno adeguato, nel qual tempo in vero :or molti maggiori incrementi fondossi e divenne pella fecondita del territorio caricatoio interno di frumento.
Regalbuto dal 1500 al 1690
All'inizio del XVI secolo l'economia siciliana non mostrava, almeno apparentemente, segni di crisi: la produzione cerealicola dell'isola aveva ancora, per esempio, la stessa importanza che aveva avuto nel passato; eppure la Sicilia si trovava in una situazione politico-sociale quanto mai instabile e caotica. A provocarla concorsero senza dubbio le epidemie del 152231 e del 1575-76, il terremoto e l'alluvione del 1542, le ricorrenti rivolte ed insurrezioni quali le sommosse antispagnole e le con giure baronali del 1516, l'ammutinamento di soldati spagnoli in Valdemone del 1439-43, l'insurrezione di Palermo per la carestia del 1560.
Tali eventi, aggiunti al dissesto dell'economia siciliana causato anche dall'espulsione nel 1492 degli Ebrei, che formavano allora una ragguardevole forza politica, e dalla profonda crisi del latifondo, crearono gravi squilibri sociali e nuovi problemi che accompagneranno la vita siciliana sino ai giorni nostri. Infatti tra la fine del Cinquecento e l'inizio del Seicento dilaga in tutta l'isola il banditismo, che avra' la sua permanente codificazione nella mafia.
I briganti, battendosi contro i grandi proprietari terrieri, nonostante i proclami e le punizioni esemplari comminate dai vicere' ai favoreggiatori, riuscivano ad ottenere l'appoggio dei contadini, ormai stanchi delle angherie dei baroni. E', in sostanza, una grande rivolta sociale che dividera', sempre piu', la societa' siciliana in due: da una parte i piu' ricchi, i nobili e dall'altra i poveri con la loro infinita e disperata miseria. Nonostante tale situazione l'opinione pubblica guarda ancora con grande rispetto alla monarchia, e numerosi intellettuali e borghesi sperano in una sua iniziativa che limiti gli abusi del baronaggio, favorendo una maggiore connessione tra le classi. Cio' purtroppo non avviene dal momento che la monarchia spagnola, sempre piu' in crisi, e' costretta a vendere i Comuni della corona ai signori e a lasciare ad essi ed alla Chiesa mano libera, accrescendo i loro privilegi a danno delle altre classi sociali. La Chiesa subisce, in questo periodo, il turbamento spirituale provocato dalla scissione luterana.
Ma questo non influisce minimamente sul suo potere temporale. Essa infatti diviene, nel generale degrado e nelle carenze istituzionali, l'unica autorità stabile a cui poter far riferimento. Caratteristica di questo periodo e' la proliferazione di case religiose maschili e femminili sia nelle città che nei piccoli centri, dovuta anche alle leggi sul maggiorasco. Le famiglie aristocratiche e quelle borghesi in seguito, molto spesso, per non dividere il patrimonio, costringevano i figli piy giovani, o le figlie, ad entrare nei conventi o nei monasteri.
La vita religiosa non implicava oltretutto una perdita di rango e poteva anzi far sperare in una brillante carriera ecclesiastica. Ni la religione impediva ai cadetti dell'aristocrazia una vita in-dubbiamente mondana, se non addirittura licenziosa.
L'aumento di potere della Chiesa e le circostanze che la portarono a sostituirsi di fatto in molte funzioni all'autorità regia ci fanno comprendere, in parte, la tenace resistenza che essa ebbe in seguito di fronte a chiunque volesse limitarne i poteri, o riconsiderarne l'immunità. Nascono cosl le premesse che porteranno, in seguito, a molteplici e piy o meno famose controversie e liti giudiziarie in tutta la regione e a cui anche il Comune di Regalbuto non fu estraneo (vedi la controversia sulla chiesa di S. Calogero tra i Regalbutesi e i vescovi di Catania, o ancora la secolare lite giudiziaria tra gli abitanti di Regalbuto e i vescovi di Messina [AA.PP.]).
Tuttavia la chiesa, pur tenendo stretti legami con l'aristocrazia, tenta di ricostruire nuove relazioni con le classi subalterne e propone una nuova serie di interventi, codificati poi dal Concilio. di Trento, miranti a colpire la corruzione che in essa allignava da tempo e dando nuovo impulso a tutti gli ordini religiosi. Gli ordini monastici saranno in conseguenza la cinghia di trasmissione di questi nuovi fermenti, dato che essi assicureranno un indirizzo unitario ed una maggiore espansione ai progetti della Controriforma.
Assistiamo allora in tutta l'Isola, e quindi anche a Regalbuto, a un rifiorire dei vecchi monasteri e all'insediamento di nuovi. A Regalbuto, come d'altra parte in tutta la regione, furono gli ordini monastici gli esclusivi detentori della cultura; essi intuirono la rilevante valenza politica dell'istruzione e stabilirono usi e precetti innovatori, come ad esempio quello sulla gratuita dell'insegnamento, suggeriti dallo stesso vicere' Ferdinando Gonzaga.
Alcuni di questi ordini religiosi sono sicuramente presenti nel nostro Comune sin dall'inizio del XV secolo (A(Tostiniani, Carmelitani, Domenicani, ad esempio); ma solo dopo la seconda meta del Cinquecento, in seguito al moltiplicarsi delle loro iniziative e ad una loro maggiore "specializzazione", essi acquisteranno impulso e vigore. Tra di essi il piu' intraprendente e di gran lunga il piu' importante, nella storia della nostra comunita, fu l'ordine degli Agostiniani.
Gli Agostiniani
Gli Agostiniani erano presenti nella nostra citta' con numerose case religiose. Non si hanno notizie certe circa l'anno della loro venuta a Regalbuto. Gli storici dell'Ordine (Lubin, Torelli, Errera, Attardi, Amico, ecc.), d'accordo con Rocco Pirro affermano l'antichita' della fondazione della loro casa, facendola risalire a prima del 1479.
Scrive 1'Attardi citando Lubin: "In questa citta (Regalbuto) fissarono molto antica la dimora li nostri Padri; il P.M. Lubin, che rapporta li nostri Registri di Roma, ci lo addita l'anno 1479."; e poi citando L. Torelli: "Ed il nostro P.M. Luigi Torelli lo rapporta ne' suoi Secoli Agostiniani sotto l'anno istesso che lo rapportano li nostri Reggistri, L'anno 1479, quale scrive: In quest'anno si fa memoria ne' Reggistri dell'Ordine del Convento di Regalbuto terra nobile del Regno di Sicilia, nel quale appunto in quest'anno si celebro' il Capitolo Provinciale di quella vasta provincia, nel quale fu eletto Provinciale M.Fr. Pietro Migliorati, e la di lui elezione fu confermata dal Generale Ambrogio da Cora, fatto il giorno 15 Maggio. Quanto tempo poi prima di questo, fusse stato fondato questo nostro Monastero, come, e da chi, non vi e' dei nostri Autori alcuno che lo scriva. Sicchi, mentre in questo anno celebrossi il Capitolo Provinciale in questo nostro Convento, fa d'uopo crederlo piu' antico, benchi noi non abbiamo avuto lumi piu' distinti". Anche le nostre ricerche si fermano al 1479 cosicchi, d'accordo con gli storiografi del passato, dobbiamo dedurre che gli Agostiniani dovettero arrivare nella nostra citta molto tempo prima.
Il primo convento dell'Ordine, per antichita' ed importanza, fu dedicato dai religiosi a S. Agostino.
Diciottesimo in Sicilia, nella stima dell'Attardi, fu sicuramente uno dei principali della provincia agostiniana ed ebbe un'importante Casa di noviziato; lo testimoniano l'enorme biblioteca ricca di preziosi codici ed incunaboli recentemente dispersi, tutta una serie di eruditi e santi monaci formatisi in questa scuola, i numerosi padri provinciali che esso diede all'ordine, le visite al convento dei padri generali e il fatto stesso di essere stato scelto, piu' d'una volta, per il raduno del Capitolo provinciale degli Agostiniani.
Anzi, a questo proposito, 1'Attardi ci narra del dissidio scoppiato tra i frati durante la riunione del capitolo provinciale del 1691 nella citta' di Rebalbuto: "In quest'anno (1691) radunossi il Capitolo Provinciale nella citta' di Regalbuto, e perchi non comparve la solita lettera patentale del nostro Padre Generale in destinare Presidente della Provincia, che dirigesse il Capitolo e sostenesse le sue veci, gli Elettori si divisero parte a favore del Padre M. Fra Filippo Felici da Palermo, parte a favore del Padre M. Fra Melchiorre Minutilla da Palermo, che trovavasi Rettore Provinciale, con tale divisione il Capitolo si scompiglio', e furono eletti Provinciali ambedue li suddetti Padri Maestri, e nacque nel detto Capitolo un piccolo scisma, che subito si estinse per le prudenti provvidenze interinarie date da Monsignor Giudice della regia Monarchia di continuare nel governo i vecchi Superiori, ' fin tanto che venissero le nuove disposizioni dal nostro Padre Generale, quale annullate ambedue l'elezioni destino' al governo della Provincia: il P. Lettor Giubilato F. Antonio Ruiz Majorchino col carattere di Rettore Provinciale, che governo' la Provincia un'anno solo, il 1692".
Alla grande famiglia degli Agostiniani appartenevano, oltre al monastero femminile di cui parleremo in seguito, altri due conventi (maschili). II piu' importante dei due era quello di S. Antonio Abate extra moenia. Eretto fuori dall'abitato sull'antico eremo di P. Filippo Dulcetto dal Ven. Servo di Dio P. Andrea del Guasto, fondatore della Congregazione degli Agostiniani Riformati di Sicilia, divenne ben presto, per la bellezza del luogo e per la ricca biblioteca di cui era fornito, una residenza molto ambita.
Agli Agostiniani Riform ati apparteneva anche un'altra piccola Casa situata dentro la citta' e precisamente sulla piazza principale, di fronte al Palazzo del Comune: esso pero', come dice don Giuseppe Campione, non fu mai un vero e proprio convento ma piuttosto una base che serviva d'alloggio ai Padri di S. Antonio quando la necessita li costringeva a pernottare in paese.
I Gesuiti
L'unico ordine che riusci a contrastare l'egemonia degli Agostiniani nella nostra citta' fu quello dei Gesuiti. Arrivati a Regalbuto intorno al 1680, riuscirono ben presto ad avere una potenza economica tale che permise loro di erigere, nell'arco d'un cinquantennio circa, due magnifiche case religiose. E non e' forse un caso che uno dei due collegi dell'ordine sia ubicato, similmente a quello di S. Antonio Abate degli Agostiniani, su un preesistente insediamento rupestre, sito in contrada Setalu', proprio di fronte al convento agostiniano.
Lungo la via principale del paese, dirimpetto all'ex abbazia di Garagozzo, sorge poi l'altra casa dei Gesuiti (Collegio di Maria). Edificata intorno al 1732-35 (Amico; AA.PP.) fu, a spese della famiglia Taschetta, dotata di beni adeguati perchi i Gesuiti vi aprissero una scuola che divenne ben presto rinomata e frequentata sia dai numerosi rampolli delle famiglie piu' nobili, sia da giovani di estrazione sociale meno abbiente. L'importanza del Liceo della Compagnia di Gesu' fu enorme per la nostra citta; infatti, inserendosi in una realta' sociale di generalizzato analfabetismo, esso fu, assieme alla casa di noviziato degli Agostiniani, il principale strumento di elevazione culturale del paese.
Quando nel 1767 re Ferdinando espulse l'ordine dal suo regno, la scuola si trasformo' in Real Liceo sotto la direzione di Gundisalvo Picardi e continuo', con alterna fortuna, nella sua opera di formazione culturale sino all'unita d'Italia.
I Carmelitani
Fu probabilmente il primo ordine religioso stabilitosi nella nostra citta. "Convento povero e antico" lo definisce Rocco Pirro; mentre cosi ne parla Vito Amico: "Avanti il secolo XV dicono fondata la casa dei carmelitani, all'estremita' suprema di Regalbuto verso scirocco, sotto il titolo della B. Vergine del Carmelo; essa non la cede alle altre case religiose, ni di piccolo decoro i al paese, e viene frequentata dai cittadini di culto precipuo".
Eppure, sebbene i numerosi Capitoli Provinciali dell'Ordine tenuti nel convento, come attestano una lapide marmorea ed una scritta sul muro del chiostro datata 24 Aprile 1648, potrebbero indurre a pensare a una forte comunita' religiosa, noi siamo dell'avviso che i Carmelitani non avessero una significativa presenza a Regalbuto. Se cosi non fosse, non ci sapremmo spiegare come mai i vescovi catanesi, escluso Michelangelo Bonadies (1668-1686), non dicano nulla, sui carmelitani, nelle loro relazioni ad limina scritte in occasione delle visite pastorali diocesane.
Un altro indizio, piu indiretto questo, e' dato dal fatto che la chiesa intorno al 1760, versando in precarie condizioni, fu chiusa al culto, per essere poi riaperta nel 1778.
I Domenicani
Pervenuti a Regalbuto nel 1547, i P.P. Domenicani si stabilirono all'estremita' occidentale del quartiere saraceno. Fu la loro attivita' essenzialmente religiosa, come dimostrano i pochi documenti a noi giunti (AA.PP. e AA.CV.). Essa mirava all'organizzazione e al controllo delle espressioni collettive di de vozionalita "popolare", legate al culto mariano del Rosario, come la titolazione della loro stessa chiesa dimostra. I Domenicani comunque non furono mai molto numerosi, come attestano le relazioni "ad limina" dei vescovi di Catania.
Il vescovo Ottavio Branciforti (1640-46) ne enumera sei, mentre il vescovo Marco Antonio Gussio (1655), dopo la sua visita a Regalbuto, ne stabilisce il numero in quattro; nessun computo ne fara invece il Bonadies, pur citandoli anch'egli nelle sue carte.
I Cappuccini
Tutte le fonti sono concordi nel ritenere il 1585 l'anno d'insediamento dei Cappuccini a Regalbuto. Una attenta lettura di Vito Amico ed una preziosa annotazione d'un manoscritto del 1670 (AA.PP.) ci fa sapere con sicurezza che i Padri, sin dall'inizio, si stabilirono nella chiesa di S. Vito: oggi comunemente conosciuta come chiesa dei Cappuccini.
Cade quindi l'ipotesi, che recentemente alcuni concittadini hanno avanzato e che padre Gioco, per scrupolo, riporta nel suo libro "La Diocesi di Nicosia", la quale ipotizzava come prima sede dei Cappuccini una ipotetica chiesa posta in contrada S. Vito.
Riteniamo piu plausibile, invece, che la denominazione venisse alla contrada dalla rendita di 30 onze l'anno che il comune assegnava ai monaci per la custodia del culto del Santo Patrono e per i loro servigi alla comunita'. Pare che ad essi fosse assegnato il governo dell'ospedale cittadino che, oltre ad accogliere gli infermi, fungeva da ospizio per i trovatelli ed i poveri.
Nessun documento pero' supporta questa tesi; l'unica citazione sull'ospedale da noi rinvenuta si trova nella relazione ad limina dal vescovo M.A. Gussio il quale parla del nosocomio ma non dice che esso fosse governato dai Cappuccini.
Cosi recita la nostra fonte:
"Nosocomium pro suscipiendis utriusque sexus aegrotis civibus et exteris puerisque expositis, eleemosynamque praebere pauperibus et infirmis institutum ex tat. Tres procuratores habent; regimen eorumque electio ad nostrum vicarium foraneum at iuratos spectat"
(M.A. Gussio, Limina 1655, foglio 244) (Esiste un istituto, nosocomio, per accogliere i malati cittadini e forestieri di entrambi i sessi, per i bambini abbandonati e per elargire l'elemosina ai poveri e gli infermi. Hanno tre procuratori; il governo e la loro nomina e' di competenza del nostro vicario foraneo e dei giurati (di Regalbuto), e nelle note a margine dello stesso foglio: "Hospitale pro infirmis et pueris expositis. Distribuuntur etiam eleemosynae pauperibus et infirmis" (Ospedale per gli infermi e per i bambini abbandonati. Vengono distribuite anche elemosine ai poveri e agli ammalati). Lo stesso Gussio, al foglio precedente, parlando dei padri afferma: "...et capucinorum ultimum at fratres duodecim commorantur... (ibidem 1655 f. 243 v) (...ed infine vi dimorano dodici frati cappuccini).
Abbiamo, invero, una delibera municipale in cui si parla dell'istituzione d'un lazzaretto nel convento dei cappuccini ma il documento, di cent'anni fa (19 luglio 1875), non ci dice piu di tanto.
A questo punto l'unica cosa che possiamo con sicurezza affermare e' che la famiglia dei Cappuccini era, intorno al 1640-1686 numerosa e stimata non solo per la poverta e purezza di vita, ti pica dell'ordine, ma anche per le opere caritative ed assistenziali che essa esercitava a Regalbuto.
Monastero di S. Giovanni Battista (Agostiniane)
Sugli ordini femminili crediamo sia indispensabile una premessa. Il non aver potuto esaminare tutti i documenti che li riguardano, e che sappiamo esistenti, ci permette una ricostruzione piuttosto limitata della loro storia, lasciando spazio a qualche perplessita'.
La maggiore incertezza riguarda il monastero di S. Giovanni Battista. Le relazioni "ad limina" dei vescovi catanesi attribuiscono questo monastero all'ordine delle Benedettine; gli storici Rocco Pirro, Vito Amico e Bonaventura Attardi riconoscono invece il convento all'ordine delle Agostiniane.
Anche i pochi documenti che noi abbiamo potuto esaminare [AA.PP.] affidano il monastero alla famiglia agostiniana; ma decisiva per l'attribuzione del monastero di S. Giovanni alle Ago stiniane e', a nostro avviso, la testimonianza dell'Attardi, il quale ci trasmette per esteso il decreto d'approvazione del vescovo di Catania per la costituzione del monastero sotto la regola di S. Ago-stino. Da questo decreto risulta che esso fu fondato nel 1586 per volonta della nobildonna Agatuccia Gritti che lo costrui e lo doto' delle rendite necessarie alla sua esistenza.
Monastero di S.M. degli Angeli (S. Antonio da Padova)
L'altro monastero delle Agostiniane, piu' antico di quello di San Giovanni, fu fondato nel 1526 dal frate Ambrogio Testai, dello stesso ordine di S. Agostino. Fu all'inizio un ritiro non clausurato, costruito accanto alla chiesa della confraternita di S. Antonio da Padova.
Trasformato in monastero ed ottenuta l'annessione della chiesa della confraternita, dove lo stesso Testai verra' in seguito seppellito, divenne ben presto, per le donazioni ricevute, cosi florido da gareggiare per fasto e mondanita di vita col vicino monastero delle Benedettine. Pur non dubitando delle affermazioni agiografiche che gli storici dell'ordine hanno per le specchiate virtu e santita di vita di alcune suore di questo convento, non bisogna neppure dimenticare le lamentele, per le continue infrazioni alla Regola, dei vescovi catanesi.
Dira' il Branciforti: "Dei tre monasteri di monache uno i soggetto ai padri agostiniani, e la sua disciplina lascia a desiderare: esse non hanno nulla di religioso a parte la clausura; infatti nell'a bito, nel suo modo di vivere, nei discorsi, nella liberta dei costumi sono piu' vanitose di quanto non sia permesso ad una ragazza. E piu' tardi il Bonadies scrivera: "Poichi erano stati riscontrati alcuni abusi nell'amministrazione dei beni temporali sia di alcune chiese sia dei monasteri femminili, diedi alcune prescrizioni su questo argomento, rafforzate dalle consuete pene e censure".
Non bisogna tuttavia dimenticare, come abbiamo gia detto precedentemente, che la maggior parte delle donne entrava in monastero per costrizione familiare, mentre poche erano quelle che si monacavano per vocazione.
Ordine delle Benedettine
Giunte a Regalbuto prima del XVI secolo le Benedettine si stabilirono dapprima nel quartiere di S. Caterina. Qui fecero erigere la loro badia di cui oggi resta a ricordarla solo il nome della strada (via Badia vecchia). Successivamente il monastero fu trasferito, nel corso del XVII secolo, in uno dei quartieri piu alti della citta (l'attuale via Plebiscito) che, d'allora, dal nome della chiesa del monastero il popolo uso' indicare col nome di S.M. della Grazia.
Meno numerose e ricche dell'Agostiniane, le suore godevano tuttavia d'un grande prestigio e il loro monastero fu, per lungo tempo, il preferito dalle nobildonne cittadine.
Confraternite e Congregazioni
Oltre agli Ordini religiosi un contributo sicuramente efficace al cambiamento del clima religioso regalbutese negli anni successivi alla chiusura del Concilio tridentino venne dalle confraternite e dalle varie associazioni laicali. I dati fornitici dalla nostra ricerca sono purtroppo incompleti ma sufficienti per esprimere alcune indicazioni e opinioni. La crescita e l'affermarsi di numerose confraternite denotano in questo periodo, la vitalita del fenomeno associativo nel nostro paese. A Regalbuto le diverse forme di associazionismo laicale erano suddivise in confraternite e congregazioni. Le confraternite erano quelle di S. Vito, Santa Maria della Croce, S. Antonio da Padova e di S. Sebastiano.
Confraternita di S. Vito
La piu' importante tra esse fu senza dubbio quella di S. Vito. Il privilegio dei suoi "cercatori" di questuare in tutta l'isola, la fecero cosi ricca da permettere ai confrati l'erezione di due oratori, con annessi fondaci, in pieno centro cittadino.
Dei due oratori oggi ne resta solo uno, ancora sormontato da una deliziosa edicola, purtroppo parzialmente distrutta, con la statua del Santo; l'altro invece e' stato nel secolo scorso venduto e trasformato in case di abitazione, oggi in parte proprieta' di privati e in parte del Circolo Cittadino. Le confraternite regalbutesi avevano lo scopo d'incrementare il culto mariano e di recuperare sul terreno della religiosita' popolare, che trovava nelle pratiche cerimoniali (processioni, fe ste, ecc.) le sue piu' espressive manifestazioni, la tradizione trequattrocentesca dei disciplinanti.
S. Sebastiano
Di ascendenza disciplinante, sul modello della "casazza" nicosiana era la confraternita di S. Sebastiano. Sodalizio tra i piu prestigiosi organizzava e controllava i riti processionali della settimana santa. Inoltre la mutualita' tra i confrati, si esplico' in maniera alquanto insolita: la confraternita fu protagonista del primo esempio di edilizia popolare a Regalbuto.
Nei terreni antistanti la loro stessa chiesa, i procuratori di S. Sebastiano fecero costruire degli alloggi (quartiere di S. Sebastiano) per i sodali meno abbien ti della compagnia. E questi ultimi, dietro il pagamento d'un canone annuo, potevano usufruire degli alloggi vita natural durante. Le congregazioni erano quelle di S. Maria della Annunciazione e delle Anime Sante del Purgatorio.
Congregazione dell'Annunziata
Tra i fini della congregazione di Santa Maria dell'Annuncia-zione, oltre al culto mariana, vi era l'esercizio della carita' fra i membri dell'associazione e verso i bisognosi: orfani, bambini ab bandonati e affidati alla pubblica assistenza ecc. Essa aveva la sua sede nel convento dei Carmelitani e curava con particolare cura e pompa la festa dell'Annunciazione e le altre festivita' mariane.
Congregazione delle Anime Sante del Purgatorio e del S.S. Sacramento
Ma la supremazia culturale spettava al S.S. Sacramento e al culto eucaristico in generale. Questa prerogativa apparteneva alla piu' ricca e potente in assoluto compagnia cittadina, comunemente intesa, appunto, come confraternita del Sacramento o correttamente Congregazione delle Anime Sante del Purgatorio. La congregazione del Purgatorio aveva fini cultuali, formativi e di carita: assistere i moribondi, dare sepoltura cristiana ai defunti, aiutare i bisognosi ecc.
Tuttavia in tutte queste forme devozionali e' il prevalente cristocentrismo a risultare decisivo; dove il carattere magico-sacrale dell'ostia si sposava con la componente rituale e cerimoniale del culto eucaristico per costituire il punto d'incontro tra devozione popolare (non bisogna dimenticare che la gente del tempo non era aliena all'uso di malefici e pratiche magiche) e celebrazione del mistero.
A questi bisogni, in sintonia con i dettami della Controriforma, la congregazione rispondeva con l'introduzione dell'esercizio delle Quarant'ore, rendendo piu' accessibile la frequenza alla comunione, cresciuta con ritmi parossistici tra la popolazione e ottenendo dal vescovo l'elevazione della loro cappella in chiesa sacramentale.
Gli scopi della compagnia non si esaurivano nelle pratiche devozionali o di generica assistenza sociale: di esse e' rimasta testimonianza nella pratica tuttora in vigore della distribuzione annuale del "Pane benedetto" per la festivita' di tutti i Santi. Essa funzionava di fatto come un istituto di pubblica beneficenza assimilabile, per certi aspetti, ad un monte frumentario "sine merito": prestava cioh frumento, o altri prodotti della terra, senza alcun interesse.
La congregazione, ricca di rendite, era dotata di un'organizzazione semplice. A capo del sodalizio c'era un governatore, depositario del grano e degli altri beni della compagnia, coadiuvato da tre ufficiali che funzionavano da segretario, cassiere ed elemosiniere.
Essi erano eletti per imbussolamento, cioh estratti a sorte da un bussolo rinnovato periodicamente. E' interessante notare che, per quanto modesto potesse essere il capitale messo in circolazione tramite i piccoli prestiti fatti ai bisognosi da sodali del Purgatorio, tuttavia, per chi navigava nella miseria, la congregazione era pur sempre un'ancora di salvezza. Il postulante, impegnandosi alla restituzione del prestito (pena la perdita di successivi aiuti se inadempiente), o a riscattarlo con alcune giornate lavorative per la compagnia, aveva pur sempre la possibilita' di avere, in attesa del raccolto, qualcosa da mangiare; e in vista della semina quel tanto di grano da gettare sul campo e poter cosi continuare a sperare nel futuro.
L'associazione delle anime sante del Purgatorio, pur sopravvivendo grazie alle donazioni e alle elemosine, fu un ragguardevole fatto economico per Regalbuto, anticipando funzioni e preroga tive riprese, i tempi odierni, dai moderni istituti di credito ed assistenziali.
Analisi dello sviluppo demografico nel periodo 1570-1861
I primi dati sulla popolazione di Regalbuto li troviamo nei riveli dei beni e delle anime di Sicilia, custoditi presso l'Archivio di Stato di Palermo. I riveli erano dei censimenti che avevano uno scopo fiscale in quanto servivano a ripartire il carico delle tasse fra le singole universita'. Sono una fonte di informazioni di eccezionale ricchezza: i possibile conoscere non solo il numero dei fuochi di ogni citta' o paese, il numero degli abitanti e la loro ripartizione secondo il sesso, ma anche il valore dei beni mobili e immobili posseduti dalle varie famiglie.
Riportiamo la tabella sull'andamento della popolazione di Regalbuto fra il 1570 e il 1861. I dati sono ripresi fino al 1748, dai riveli dei beni e delle anime, e dal 1798 al 1861 dai vari censimenti tenutisi in quell'arco di tempo.
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Il movimento della crescita della popolazione regalbutese risulta abbastanza netto: si passa dai 1812 abitanti del 1570 ai 9115 del 1861. Questo aumento non appare costante e duraturo in quanto ad un primo periodo (1570-1653) di crescita +2531 unita, ne segue un altro (1653-1714) di crisi -481 unita, per poi riprendere nei due periodi seguenti: +2417 unita nel 1714-1798 e +3247 unita nell'arco di tempo 1798-1861.
Dal 1583 al 1714 si delineano i limiti di un '600 demograficamente contrastato: ai guadagni della prima meta del secolo (+897 unita pari al 30,560l0), segue una fase di regresso nel pe riodo 1653-1714 (-481 unita). Il calo della popolazione -11 % che si evince dai dati del rivelo fiscale del 1714 rispetto al precedente, segnala uno stato di profondo malessere sociale. Sulla vicenda demografica regalbutese pesa notevolmente, nella seconda meta del '600, la crisi produttiva e la recessione commerciale che aveva colpito l'isola. Dall'esame dei dati sull'andamento della mortalita nel paese rilevati poi dai registri parrocchiali, custoditi presso l'archivio della Chiesa Madre di S. Basilio, appare subito la difficile congiuntura degli anni 1671-72 e degli anni a cavallo dell'80. Periodo in cui il paese attraverso' una grave depressione economica dovuta alle difficili condizioni dei traffici commerciali, a seguito della ripresa su scala europea della guerra. Dopo una lenta fase di recupero, ancora gli inizi del '700 l'economia locale appariva ben lontana dall'aver trovato il suo equilibrio. Nel primo decennio, periodo di crisi in tutta Europa, una serie di annate di cattivo raccolto (1701, 1705, 1708, 1710) apri la via ad un nuovo brusco innalzamento del numero delle sepolture a causa delle ricorrenti carestie ed epidemie.
Da uno sguardo sommario ai tassi di natalita' e di mortalita' ed ai valori dell'incremento naturale appare evidente che il Settecento, nel periodo 1714-1748, e' caratterizzato da un notevole e progressivo sviluppo demografico: la popolazione del comune raddoppia, con un aumento +51,94%. E' un raddoppio del numero degli abitanti che avviene in meno di 40 anni e che spinge subito ad un interrogativo: a quali motivi e' possibile ricondurre tale considerevole aumento? Indubbiamente la crescita e' dovuta ad una positivita' del saldo naturale, cioh alla differenza fra il numero dei nati e quello dei morti; ma molto probabilmente influi maggiormente in questa dinamica demografica un'ondata migratoria dai comuni vicini. Era povera gente che fugge i propri paesi d'origine spinta dalla miseria e dal desiderio di sottrarsi al carico dei debiti accumulati e alle gabelle pesanti imposte dalle universita', emigrando, in mancanza di stretti controlli, verso comuni con un minore carico fiscale o con qualche esenzione in piu'.
I progressi, anche se meno intensi, continuano fra il 1798 e il 1861 (+45,16%). La popolazione cresce dai 6279 abitanti presenti nel fine secolo nel comune, ai 9115 residenti alla data del 10 censimento nazionale del 1861. Al di la delle cifre, sempre discutibili e incerte, l'insegnamento primo che si puo' trarre dai dati e che sembra esserci la presenza di un legame tra dinamiche demografiche e congiunture economiche; anche se non i possibile considerare tutti gli aumenti di popolazione come altrettanti e sicuri indizi di ricchezza e tutti i regressi in senso inverso.
L'incendio dell'archivio comunale ad opera dei Centuripini
Nel 1697 nacque una contesa tra il comune di Regalbuto e quello di Centuripe circa il possesso del feudo di Maliventre, dove stava per essere fondato il nuovo centro abitato di Catenanuova. Entrambi i comuni avevano presentato dei ricorsi a Palermo, nei quali chiedevano giustizia al Viceri, quando una trentina di Centuripini armati si diressero con carri carichi di legna da ardere verso Regalbuto. Arrivati sotto il municipio deposero la legna nell'archivio comunale, dove pensavano che fossero custoditi i documenti posseduti dai Regalbutesi favorevoli alle loro pretese, e vi appiccarono il fuoco. Le fiamme provocarono la distruzione di vari incartamenti che vi erano conservati.
Il processo che fu presto istituito dalle autorita del tempo, per giudicare i fatti accaduti, si concluse con la perdita da parte di Centuripe di parte del suo territorio: i feudi Cuba, Sparagogna, Bruca, Criscina' e Sisto furono aggregati a quello di Regalbuto fin quando quest'ultimo non si fosse ripagato dei danni subiti. L'Ansaldi nelle sue Memorie Storiche di Centuripe confessa la mancanza di fonti documentarie significative su tale avvenimento. Riporta l'esistenza di due rapporti, uno redatto dal capitano di giustizia don Fabrizio Alessi e l'altro compilato dai pubblici ufficiali del comune di Centuripe.
Ambedue i documenti portano la data del 15 aprile 1698 e hanno come unico destinatario il principe di Aci. Quest'ultimo aveva incaricato l'Alessi a riscuotere delle somme dagli abitanti del paese come ammenda per il reato commesso. Nel suo rapporto l'Alessi comunicava al principe di essersi recato a Centuripe per recuperare il denaro per, la riparazione del danno arrecato ai Regalbutesi e lo informava di aver constatato che il paese fosse un piccolo e povero centro agricolo, i cui abitanti erano abituati a vivere alla giornata e che quindi gli era stato impossibile rilevare la somma prestabilita. Inoltre dei ventisei individui che avrebbero fatto parte della spedizione, sedici erano fuggiti dal comune e si erano rifugiati in altri e i dieci rimasti erano talmente poveri che meritavano l'elemosina. Per questo motivo l'Alessi, come confermato dal documento redatto dai pubblici ufficiali, aveva potuto riscuotere solamente 80 onze. Ma il capitano di giustizia ando' oltre nella sua missiva e chiese al principe di Aci di far pressione presso la Corte per far revocare la sentenza di condanna emessa dal Tribunale e di chiedere l'indulto "per quei poveretti" al Vicere', in quanto avevano commesso il delitto per difendere "la giurisdizione di colui che era il proprio natural padrone".
1740 - Voto del Tribunale del Patrimonio
I giurati, il sindaco e la cittadinanza di Regalbuto con tre memoriali, recanti le date dell' 11 aprile 1737, 9 agosto 1737 e 3 agosto 1738 informavano il Tribunale del Patrimonio che l'Arci vescovo di Messina si era appropriato ingiustamente "di talune regalie eligendo annualmente il capitan di giustizia, il giudice, un giurato, il secreto e i due notai della Corte capitaniale e giuratoria, ch'enuncie di aver di quella citta' il mero e misto imperio; che si appropri gli emolumenti della dogana, che si intitoli conte di Regalbuto"; e chiedevano che tali prerogative fossero ritornate ai legittimi possessori, cioh alla regia camera e da questa al regio demanio. In una supplica del procuratore della Mensa Arcivescovile di Messina pervenuta al Tribunale, si afferma "che il monsignore si ritrovi nel possesso delle accennate giurisdizioni in vigore di un privilegio" concesso dal conte Ruggero in Messina nel luglio del 1080 e ratificato dal re Federico II.
Il Tribunale per piu di un anno ascolto' le arringhe degli avvocati di ambo le parti e il 15 aprile del 1740 formulo' la sentenza -sulla controversia affermando che "niuna delle suddette pretese regalie spetti al monsignor Arcivescovo nella citta di Regalbuto, ma unicamente siano di Sua Maesta onde con ragione dal regio Fisco s'insista per la riunione delle medesime alla corona".
Nel motivare il suo giudizio il Tribunale affermo' "che le quattro regalie cosi come attesta la giurisdizione nel capitolo quae sunt regaliae e nella stessa costituzione di Federico devono essere concesse dal re, cosi come per il titolo di conte", mentre l'arcivescovo di Messina le aveva esercitate tramite il privilegio del conte Ruggero che il Tribunale aveva riconosciuto come "apocrifo ed inoltre spirato nell'anno 1261". Inoltre se pur richiesto, il procuratore della mensa arcivescovile non riusci a produrre l'originale del privilegio al Tribunale, ma "una copia che si dica trovata in una cassa del proprio e privato archivio dell'arcivescovo". Gli avvocati di parte arcivescovile cercarono di suffragare la veridicita' del documento accompagnandolo con testimonianze di storici e di regi visitatori; ma nessuno di questi storici scrisse in merito al privilegio o prima del diciassettesimo secolo, oltre ad esser tutti originari di Messina. Inoltre sono presenti discordanti interpretazioni per quanto riguarda l'anno e la data di promulgazione del diploma da parte del re normanno.
Anche il privilegio concesso da Federico, presentato dalla mensa arcivescovile, risulto' "apocrifo e non autentico onde nello stesso scoglio del preteso confermato privilegio ricade". La sconfessione del diploma di Ruggero da parte del Tribunale si basava, come abbiamo gia accennato, su alcuni anacronismi riscontrati nel documento. Per i giudici "tal preteso privilegio non si abbia dal conte Ruggero potere dare pria dell'anno 1089, imperciocchi si fa in esso menzione della contessa Adelaide sua consorte", in quanto il re normanno sposo' Adelaide, nipote del marchese Bonifacio non prima di quell'anno cosi come attesta lo storico contemporaneo Goffredo Malaterra (lib. 4, cap. 14).
Inoltre come afferma il Rocco Pirro in Notitius Ecclesiae Siciliensis, Ruggero inizio' a creare "le badie ed i vescovadi" e a regolarne la concessione dopo aver definitivamente sconfitto gli Arabi in Sicilia: nel febbraio del 1091 con la resa delle piazzeforti di Noto e di Butera cosi come ci viene confermato dal Malaterra. Nel documento si presuppone compiuta la traslazione del vescovado dall'antica citta' di Troina in quella di Messina, quando essa avvenne soltanto nel 1096, o come riportato da altri storici nel 1094 0 1093, per cui il documento "risulta commentizio in quanto si suppone seguita, non pria di quest'ultimo tempo poti mai darsi". Inoltre i figli di Ruggero, Giordano e Goffredo, supposti presenti nel privilegio erano morti prima del 1093 cosi come e' affermato dal segretario del conte, il Malaterra (lib. 4, cap. 18). La scarsa veridicita del documento consta "nel dire ivi e astanti ambi i figli, liberata la Sicilia, sottomessi i Saraceni e piantate le chiese". Il Tribunale nelle sue motivazioni aggiunge che pur volendo riconoscere l'autenticita al diploma "nondimeno sin dall'anno 1262 sarebbe spirato, a motivo che essendo stata in quel tempo l'antica citta di Regalbuto dai Centorbani ribelli data alla fiamme ed affatto distrutta e ricostruita a spese dell'erario in altro luogo dal re Manfredi". Dal chh ne deriva che la citta apparteneva al regio Demanio e alla real corona. Ed inoltre "su suolo ove l'attual abitazione s'innalza e nelle vicinanze ancora l'Arcivescovo non scuote da quegli abitatori alcun balzello, ma li riscuoteva soltanto in alcuni feudi del suo territorio".
Rileggendo il diploma nella versione dataci dal Rocco Pirro si nota che non v'e' nessun accenno alla concessione del titolo di Conte, del mero e misto imperio e della possibilita di riscuo tere gli emolumenti delle dogane, ni tantomeno di poter eleggere gli ufficiali del comune da parte dell'Arcivescovo. Inoltre, come afferma il consigliere regio Garzia Mastrilli nel suo De Magistratura, le concessioni del mero e misto imperio furono introdotte in Sicilia dai re Aragonesi (lib. 4, cap. 16, n. 14, tomo 2) e che gli arcivescovi di Messina non poterono esercitare prima del 1435 questo potere in quanto per lettere "estratte dalla Real Cancelleria e dall'Ufficio del Protonotaio si osserva, che il re Martino abbia nell'anno 1396 eletto il capitano di Regalbuto, come altresi re Alfonso negli anni 1431, 1432, 1433. Soltanto dal 1435 gli arcivescovi di Messina cominciarono ad eleggere il capitano in questa citta e dal 1452 il giudice. Ma la base di tali privilegi e' da annoverarsi non gia nel diploma di Ruggero ma nella concessione fatta nel 1435 dal re Alfonso all'arcivescovo Bartolomeo Gatto, e nella concessione del mero e misto imperio che il suo successore ebbe nel 1472 dal Vicere' Simon Darrea. La concessione del re Alfonso fu personale, cioh fin tanto che l'arcivescovo fosse rimasto in vita. Ed inoltre
"Quia de fide sufficientia, idoneitate, et animi probitate, vostrae reverendissimae paternitatis plene confidimus, tenore praesentium de gratia speciali, dum tamen de nostro processor beneplacito voluntatis, concedimus et committimus, quod vice et nomine vestri possitis et vobis liceat ponere et statuere in dieta terra Reghalbuti idoneum capitaneum, seu idoneos capitaneos, cum omnibus juribus et cognitione causarum, recepto prius ab eisdem fidelitatis juramento. .."
Dal quale trascritto si deduce che gli arcivescovi suoi successori non potevano valersi di sopraddetto privilegio.
Per quanto si riferisce al privilegio del Darrea del 1472, bisogna ricordare che era interdetto ai vicerh del regno di concedere la giurisdizione, il mero e misto imperio ed in conseguenza la elezione dei magistrati in quanto queste prerogative appartenevano al sovrano. I1 procuratore della Mensa arcivescovile nella sua supplica al Tribunale affermava che il Gatto avesse avuto quel diploma nello stesso momento in cui i baroni e i prelati del regno erano stati spogliati dal re Alfonso "del regno nei loro feudi e delle loro baronali preminenze" e furono nelle loro prerogative reintegrati nell'anno 1452 dal Principe, riprendendo gli arcivescovi di Messina il diritto di elezione degli ufficiali anteriormente detenuto. Ma prima del 1435 mai gli arcivescovi di Messina avevano eletto i magistrati in Regalbuto, ni mai ebbero in possesso tale prerogativa, ni il contrario poterono dimostrare.
Inoltre re Alfonso in base alla Costituzione di Federico penso' di obbligare ogni barone o prelato ad esibire il suo titolo per il motivo che parecchi in quel periodo lo avevano usurpato o ne erano completamente sprovvisti e quindi era priva di ogni fondamento l'ipotesi di una confisca delle prerogative baronali da parte regia. Il re dietro le suppliche fattegli dal Parlamento nell'anno 1452 col capitolo 456 accordo' l'esenzione dal mostrare i loro privilegi a coloro che ne fossero stati in possesso per almeno 30 anni, aggiungendo che per coloro che avessero presentato anche il diploma si sarebbe osservato nella successione la forma in esso prescritta.
Dal che si deduce che gli arcivescovi di Messina per l'elezione degli ufficiali in Regalbuto non avevano altro che il privilegio di Alfonso e le concessioni ottenute dai vicere', e in base ai mede simi loro hanno di tempo in tempo continuato in questo possesso prorogandosi la prima facolta, che era gia estinta o l'altra che sin da principio non era valida.
I governanti dell'isola hanno eletto nella citta di Regalbuto il capitano, come "si legge nelle lettere patenti degli anni 1435, 1438, 1439, 1440, 1445, 1500, 1501, 1502, 1503, 1535, 1646 e che quindi il loro uso per illegittima usurpazione continuato altra difesa non ha che il solo e semplice beneplacito del sovrano, che per connivenza o per ignoranza della temporanea titolarita li hanno lasciati liberi nel possesso".
Per quanto riguarda al titolo di Conte bisogna aggiungere che Ruggero fu in quel secolo l'unico conte in Sicilia e il primo che nell'isola lo ottenne fu il Conte di Modica nell'anno 1300 dal re aragonese Martino; ni sino al 1500 vi e' notizia in Sicilia di un vescovo con tale titolo. Inoltre prima del 1638 gli arcivescovi di Messina non avevano mai utilizzato tale titolo e che il Tribunale della Gran Corte avutane notizia che l'arcivescovo aveva fatto stampare alcune lettere monitoriali nelle quali si affermava "Dominus in temporalibus terrae Reghalbuti" con un decreto giudiziario ordino' che si dovessero cancellare le anzidette parole, in quanto prive di ogni legittimo fondamento in quanto non esisteva nessun titolo che lo comprovasse.
Il liceo di Regalbuto
Durante il periodo del dominio dei Borboni, per iniziativa generosa di alcuni privati, furono fondate in Sicilia diverse istituzioni scolastiche che assolsero una funzione storica importante quale quella del risveglio di una regione, la siciliana, che per tanti secoli e per varie cause, era rimasta isolata e in ritardo rispetto alle altre d'Italia. Fra questi istituti va menzionato il Collegio degli Studi di Regalbuto, un liceo che dovette affrontare "molte difficolta ed eventi incresciosi" nel corso della sua esistenza. A quei tempi Regalbuto, che faceva parte della provincia di Catania, contava qualcosa in piu di 8000 abitanti. Come afferma A. Narbone, nella sua Bibliografia Sicula sistematica, il Colle gio ebbe i suoi inizi nel 1740, quando i padri Gesuiti aprirono una scuola pubblica di Grammatica in un edificio donato dalla famiglia Taschetta. Alla scuola, che contava sette allievi nel suo primo anno di attivita, ne fu affiancata un'altra per l'insegnamento dell'Umanita e della Retorica.
Chiuse nel 1768, per l'espulsione dei Gesuiti, vennero riaperte dal Governo come Regie Scuole. Verso la fine del secolo furono affidate alla vigilanza del sacerdote A. Citelli che ne fu anche nominato sovrintendente: Ma l'effettiva costituzione del "Real Liceo laico" di Regalbuto ebbe luogo nel 1815 con l'aggregazione alle suddette scuole di altre quattro. L'istituto con sede nel vecchio edificio gesuitico fu ordinato in sei cattedre "bastanti a formare un uomo di lettere", e venne affidato alle cure di due deputati: il primo era nominato, dietro proposta dell'Amministrazione Comunale, dalla Deputazione generale agli studi di Palermo; mentre l'altro con funzioni di direttore, veniva eletto dall'amministrazione dell'Abbazia Garagozziana, che provvedeva anche al suo parziale mantenimento. Nel 1824 annoverava sei sacerdoti come insegnanti, tutti del luogo, e circa ottanta allievi. Nel 1840 gli studenti iscritti erano centodieci.
Direttore della scuola per circa ventidue anni, fino al 1837, fu don Salvatore Cardaci che vi insegnava anche Teologia. Il Collegio degli Studi nella sua esistenza fu influenzato pesantemente dai raggruppamenti di persone e di famiglie che si battevano per la conquista del potere locale, e dai contrasti e le vertenze che opposero il Decurionato con l'amministrazione dell'Abbazia Garagozziana e che duro' per molti decenni. I sindaci, sfruttando le incerte procedure della legislazione borbonica, si ingerirono negli affari scolastici. I contrasti sorsero sulle prerogative nella nomina di nuovi insegnanti e sull'istituzione di nuove cattedre come quella Teorico-Pratica di Agraria e di Fisica. Questi nuovi insegnamenti erano sostenuti dai rappresentanti del Decurionato. Verso queste nuove istanze l'Abbazia Garagozziana fu insensibile e la vertenza divenne sempre piu lotta di potere per circa quaranta anni, senza che si tenesse in conto il miglioramento culturale, morale e civile del paese. I conflitti perdurarono anche sotto la direzione del laico Placido Citelli che si scontro' con gli amministratori comunali e con alcuni insegnanti. Nel 1851 la direzione fu assunta da Ignazio Compagnini. Con il raggiungimento dell'unita d'Italia nel 1860, il comune di Regalbuto perse il suo liceo. In cambio furono create le scuole elementari.
L'abolizione della feudalita'
Con la legge del 12 dicembre 1816 il governo borbonico estese alla Sicilia le misure applicate nei domini della penisola che avevano portato all'abolizione della feudalita'. La giurisdizione baronale, il mero e misto impero, i tributi e i privilegi feudali furono tutti soppressi. Si era disposto che le terre demaniali dei comuni e quelle che ad esse spettavano in compenso degli usi civici aboliti nelle terre feudali, dovessero essere divise in quote fra coloro che avevano goduto degli usi e fossero sprovvisti di terre. Ma gli aristocratici e i borghesi furono concordi nell'intento fondamentale di escludere i contadini dal possesso della terra, benchi a questi come titolari degli usi civici ne spettasse la maggior parte.
Con l'applicazione di tale legge i proprietari terrieri acquistarono il diritto di vietare l'ingresso ai contadini che volessero esercitarvi i diritti di uso, come il legnatico e il pascolo, e nello stesso tempo elevarono rigidi ostacoli al riconoscimento delle terre demaniali spettanti ai contadini in compenso dei diritti andati perduti. I lavoratori agricoli, la maggioranza della popolazione siciliana, con l'abolizione della feudalita' avevano visto aumentare la loro dipendenza dal proprietario terriero in misura notevole. Conservatori e nemici di ogni possibile mutamento non avendo piu nessun diritto libere sulla terra con l'aumento della popolazione che fece salire per loro la minaccia della fame, non solo si ridusse il loro tenore di vita ma resto' offeso anche il loro sentimento di giustizia facendo apparire legittima qualsiasi tipo di ritorsione o rivolta. In ogni comune si impresse il ricordo delle terre ingiustamente usurpate dagli aristocratici e dai borghesi, e negli anni rivoluzionari come il 1820, 1837 e il 1848 furono proprio queste ad essere oggetto di invasione. A questo si deve aggiungere l'imposta sul macinato e gli altri dazi alimentari che condannavano la Sicilia a una condizione di perenne lotta di classe.
La rivoluzione del 1820
Sotto l'influsso degli avvenimenti insurrezionali della Carboneria napoletana, anche la Sicilia insorse tra il 14 e il 15 luglio del 1820 cacciando le truppe reali. Sotto diversi aspetti la rivo luzione di Palermo fu la copia di molte precedenti insurrezioni popolari nonchi un'anticipazione delle molte altre che si sarebbero realizzate nel corso del secolo diciannovesimo. I contadini e le bande costituivano le principali forze della rivoluzione e del disordine sociale. Ma la mancanza di un programma politico chiaro e uniforme, da parte della Carboneria, le loro idee politiche elementari ed inarticolate, la loro poca consistenza numerica furono fra i loro limiti principali.
Inoltre gli adepti dei gruppi carbonari appartenevano per la maggior parte alla classe media ed alta mancando cosi di qualsiasi rapporto con i lavoratori della terra. Nei villaggi e nei co muni le notizie sull'insurrezione furono accolte come pretesto per una rivolta sociale. Regalbuto fu coinvolto in questi avvenimenti insurrezionali operati dalla Carboneria. Disordine, tumulti ed attentati contro le autorita' governative si ebbero nell'estate del 1820. Varie furono le cause che spinsero alla sommossa gli abitanti del paese. Fra queste vanno menzionate: i cattivi raccolti degli anni precedenti; la siccita' che aveva colpito in quell'estate la regione; le recenti mutazioni avvenute nei sistemi giudiziari e amministrativi, che portarono fra le altre cose alla dipendenza del comune da Centuripe; il nuovo codice e forse piu' di ogni altra cosa la proclamazione della Costituzione, sul modello di quella spagnola che fu adottata anche in Sicilia, il 7 luglio del 1820. Ma cio' che maggiormente infastidiva i Rebalbutesi era il dover continuare a pagare le decime ecclesiastiche all'Arcivescovo di Messina, anche se fin dal 1772 il Governo di Napoli le avesse abolite in tutto il reame; le angherie che erano costretti a subire ad opera degli agenti esattori e le eccessive spese delle quali erano gravate le riscossioni.
La Chiesa fino al 1772 le aveva chiamate decime ecclesiastiche di diritto divino, minacciando la scomunica a coloro che si rifiutavano di pagarle; in seguito le denomino' dominicali e di diritto umano quando le prime furono abolite. Erano delle prestazioni che gravavano maggiormente sulla piccola proprieta' terriera oppressa dall'elevata misura dell'imposta e della sovrimposta fondiaria cosi come anche dai canoni enfiteutici. Costituivano un grave ostacolo allo sviluppo dell'agricoltura in quanto si riversavano direttamente sui salari e sui consumi.
Questo malcontento diffuso fra i lavoratori agricoli sfocio' nella rivolta. Contadini armati di fucile, asce e sciabole insorsero andando alla ricerca dell'incaricato all'esazione della decima. Dapprima assaltarono l'abitazione del prosegreto Salvatore Timpanaro, dove di solito erano conservati i libri contabili dei tributi. I rivoltosi dopo aver distrutto i mobili della casa li trasportarono in luogo aperto e li diedero alle fiamme insieme a tutti i libri che vi trovarono. Non avendo rinvenuto cio' che cercavano si diressero verso lo studio del notaio Nicolo' Timpanaro, padre del prosegreto.
Furono divelte le porte e insieme incendiate tutte le pubblicazioni ivi custodite. Nel frattempo riuscirono a strappare i libri contabili della decima che erano in possesso a Salvatore La Valle.
Come ci informa l'Ansaldi, stavano gia per scardinare l'ingresso dell'archivio comunale quando furono dissuasi da due sacerdoti; quindi cercarono l'appoggio di don Salvatore Vignera, ma quest'ultimo si rifiuto' di unirsi agli insorti sparando alcuni colpi in aria a scopo d'intimidazione. Intanto il sindaco era riuscito a rag-gruppare un gruppo di volontari regalbutesi disposti a sedare la rivolta. Sotto la guida del Generale Comandante le Armi nella Val Demone Morik, armati di fucili, percorsero le strade della cittadina riuscendo ad avere ragione degli insorti che nella maggioranza dei casi furono assicurati alla giustizia. I rimanenti che avevano partecipato ai tumulti, trovarono scampo nella fuga. I rei furono processati e condannati per i delitti commessi a pagare una penale di 1000 onze. Tra gli insorti sono da annoverare alcuni dei principali esponenti dell'opposizione politica regalbutese contemporanea e futuri artefici delle sommosse del 1837 e 1848.
Regalbuto distaccato dal circondario di Centorbi
Col real decreto firmato l'11 ottobre 1817 e con la legge del 16 aprile 1819 la Sicilia veniva divisa in sette valli o province: Palermo Messina, Catania, Girgenti, Siracusa, Trapani e Calta nissetta. Le prime tre costituivano le province maggiori, e in esse vi risiedeva la gran Corte Civile; mentre le altre erano denominate valli minori. Queste province furono divise in 23 distretti e questi, per quanto riguardava l'amministrazione della giustizia, in 150 circoscrizioni. Questi circondari erano a loro volta suddivisi in tre classi: la prima comprendeva le province; la seconda i capoluoghi di distretto con piy di 15000 abitanti e la terza i capoluoghi con meno di 15000 anime. In base a questa legge Regalbuto, facente parte del distretto di Nicosia e appartenente alla provincia di Catania, non fu elevato a capoluogo di circondario ma fu sottoposto alla giurisdizione di Centorbi insieme ai comuni di Catenanuova e Carcaci. L'intera popolazione del circondario era di 10728 abitanti di cui 3600 a Centorbi, 6363 a Regalbuto, 615 a Catenanuova e 150 a Carcaci. Costituiva un circondario di terza classe in quanto non si superava la cifra di 15000 abitanti.
La scelta del Governo era caduta su Centorbi in quanto il comune era situato al centro del circondario, mentre Regalbuto era posto nella punta estrema della circoscrizione circondariale e cir sarebbe stato pregiudizio ad un effettivo svolgimento dell'amministrazione giudiziaria. Tale decisione governativa fu avversata dai Regalbutesi che inviarono svariati reclami alle autorità superiori nei quali vi avanzavano la richiesta che la sede della giustizia circondariale fosse trasportata in Regalbuto o che, rimanendo Centorbi capoluogo, fosse il comune emancipato ed elevato circondario a si. Le motivazioni che vennero fatte valere erano:
- Regalbuto aveva quasi il doppio della popolazione del comune di Centorbi;
- che per il suo territorio passava una strada rotabile regia che lo rendeva punto di passaggio e di scambi commerciali;
- la presenza di varie istituzioni morali e di vari "utili stabilimenti";
- l'avere sufficienti rendite patrimoniali;
- il carattere dei suoi abitanti, litigioso e inquieto, necessitava la presenza in loco del magistrato per reprimere e sorvegliarne meglio il loro comportamento;
Ma con la legge dell'aprile del 1819 era anche espressamente vietata la presentazione di qualsiasi reclamo tendente a modificare la designazione dei capoluoghi fino alla data del settembre 1822. Il Real Governo non voleva dare un voto favorevole a tali rimostranze in quanto preoccupato che le concessioni avrebbero spinto altri comuni a muoversi in tal senso, ed era mosso inoltre dalla preoccupazione di sconvolgere la già stabilita organizzazione dell'amministrazione giudiziaria. Intanto con il Real decreto del 17 ottobre 1821 fu istituita un'autorità giudiziaria in tutti i comuni non capoluoghi in qualità di supplente del regio giudice del circondario con le funzioni di ufficiale di polizia e giudiziaria, di giudice delle contravvenzioni di polizia e dei delitti commessi.
Tutto questo fu pensato e realizzato in quanto il giudice del circondario non sempre poteva trovarsi sul luogo dei delitti per assodarne le prove. Nel frattempo i reclami del Decurionato di Regalbuto continuarono ottenendo il voto favorevole del Consiglio Provinciale di Catania che per ben tre volte emanr delle deliberazioni in tal senso, specialmente in seguito alle sommosse scoppiate nel comune a causa dei contrasti tra le due fazioni in lotta per il potere comunale. Questa posizione favorevole presa dall'autorità governante la provincia di Catania richiamr l'attenzione del Real Governo. Con la considerazione che il comune di Regalbuto aveva una popola zione di 8000 abitanti, un vasto territorio, una rendita patrimoniale sufficiente ed era situato sulla regia strada che da Palermo conduceva a Messina, il Real Governo accolse finalmente il voto che gli era stato inviato dal Consiglio Provinciale e il 4 dicembre 1838 decretr che il comune di Regalbuto fosse distaccato dal circondario di Centorbi e dal 1 gennaio 1839 dovesse formarne uno a si.
Una voce popolare di quei tempi affermava che tale voto fu ottenuto grazie al pagamento di 100 onze al giudice regio affinchi redigesse un rapporto favorevole alle autorità superiori. Cosl Regalbuto dopo circa 20 anni di sottomissione a1 circondario di Centorbi ne formr uno proprio. Nel gennaio del 1839 si installr come primo giudice del nuovo circondario il signor Paolo Mazzone D'Aula.
1825
Con un decreto firmato dal re Ferdinando I nel 1825 fu intrapresa la costruzione di una strada che partendo da Palermo ed inoltrandosi attraverso l'interno dell'isola avrebbe dovuto raggiungere Messina. La strada regia avrebbe attraversato lungo il suo tragitto anche il comune di Regalbuto. Dapprima il tracciato della strada che collegava Regalbuto ad Aderno' sarebbe dovuto passare attraverso i feudi di Setaly, Miraglia e Carcaci. Ma in seguito alle rimostranze inoltrate al sovrano da parte del comune di Centorbi, con il rescritto del 17 gennaio 1826, il re autorizzo' il passaggio della strada ai piedi del monte dove sorge attualmente Centuripe.
Furono costruiti due ponti: uno di pietra sul Simeto, e l'altro di legno sul Salso. Quest'ultimo fu eseguito "da Carmelo Lazzarotti che nel 9 giugno 1834 ne donr un modello alla accademia Gioenia di Catania". Ma non ebbe molta fortuna: il fiume ingrossato dalle abbondanti piogge lo distrusse completamente nel 1846. In sua sostituzione, piy tardi nel 1867, fu innalzato ad opera dello Stato italiano un ponte di ferro. La strada che conduceva da Palermo a Catania, con un percorso di 240 chilometri, era pavimentata soltanto per un terzo nel 1850. Tanti erano quindi i disagi che dovevano superare i commercianti e i viaggiatori dell'epoca.
A causa del cattivo tempo si poteva restare bloccati con i veicoli anche per giorni, questo quando già a Napoli era in funzione la prima ferrovia e a conferma del grave ritardo non solo nella realizzazione delle vie di comunicazione dell'isola ma anche del suo generale sviluppo economico. Nel 1837 una rivolta di breve durata segnalr l'esistenza di forze sociali pronte ad esplodere. L'insurrezione fu scatenata da una epidemia di colera, malattia che seminr un insolito terrore in quanto non era mai apparsa prima nell'Europa occidentale.
Alcuni professori d'università arrivarono a credere che l'infezione fosse dovuta a un veleno deliberatamente propagato dal Governo. Molte migliaia di persone morirono in tutta l'isola. Nel panico generale le città si spopolarono e tanti villaggi ostruirono le vie d'accesso. Altre epidemie vi furono nel 1840, 1841 e nel marzo del 1854. Regalbuto fu particolarmente colpito nel 1867 quando molti cittadini abbandonarono il paese per trovare rifugio in altri che ne erano rimasti immuni.
In concomitanza dell'epidemia del 1837 scoppiarono dei tu,multi anche a Re albuto sostenuti dai membri delle famiglie dell'opposizione liberale. A capo della rivolta fu Domenico La Guidara "che spacciando pillole e polveri contro il colera" voleva convincere la popolazione che la malattia era opera del Governo. Il tentativo di rivolta perr non ebbe successo.
1837
Il 20 maggio 1846 il papa Gregorio XVI con la bolla "In suprema militantis Ecclesiae" riorganizzr le diocesi della Sicilia e in special modo quelle di Piazza Armerina, Caltagirone, Cefalu', Patti, Nicosia, Palermo, Girgenti e Monreale. I nuovi confini delle diocesi coincidevano, in linea di massima, con le nuove delimitazioni territoriali delle province e dei distretti scaturiti dal nuovo ordinamento amministrativo del 1818, che il re borbone Ferdinando I aveva dato alla Sicilia.
Con la sua entrata in vigore, l'anno seguente, venne superata la tradizionale divisione in Valli che risaliva al tempo della dominazione Araba: la Sicilia fu divisa in sette province, amministrate da un Intendente, e queste ultime in circondari o distretti, con a capo un Sottintendente. Il comune di Regalbuto, insieme a quelli di Centuripe, Catenanuova e Carcaci, era appartenuto fin allora alla diocesi di Catania; ma con le nuove disposizioni papali fu da questa distaccato ed aggregato a quella di Nicosia. Stessa sorte toccr ai comuni di Agira, Leonforte, Assoro e Nissoria che avevano fatto parte della diocesi di Piazza Armerina. Cosl la nuova diocesi di Nicosia comprendeva dodici comuni: Nicosia, Sperlinga, Cerami, Troina, Gagliano Castelferrato, Centuripe, Catenanuova, Regalbuto, Agira, Nissoria, Leonforte ed Assoro.
1848
Nei primi giorni del 1848 la città di Palermo fu caratterizzata da un'eccezionale abitazione. Un comitato rivoluzionario, forse inesistente, aveva indetto una ribellione per la libertà siciliana per il 12 gennaio in coincidenza delle celebrazioni per il compleanno del re.
Gia' alle prime ore del 13, squadre di contadini erano a Palermo eccitati dalla prospettiva di poter distruggere le barriere daziarie e infrangere la legge. Il cattivo raccolto dell'annata precedente, la necessità di cibo e l'abolizione della tassa sul macinato erano tra i motivi che aumentarono l'insofferenza da parte di coloro che avevano poco da perdere da un'insurrezione e solo, forse, da guadagnare. Tutti coloro che nutrivano vecchi rancori verso il gabellotto, l'esattore delle imposte e il locale prestatore di denaro nonchi contro la polizia, erano una forza ogni volta che il governo, come nel gennaio del 1848, veniva colto di sorpresa.
La notizia degli avvenimenti di Palermo costitul, per tutti coloro che avevano dei risentimenti, il segnale dell'insurrezione e l'occasione di farsi giustizia. In diversi posti fu attaccato il municipio e fu fatto un falo' con i titoli di proprietà che simboleggiavano secoli di persecuzione sociale. Ogni forma di governo cessr perchi i funzionari fuggirono per mettersi in salvo. La moralità tribale di una popolazione soggetta si manifestr con l'assassinio in massa di poliziotti e sospetti informatori, a volte con incredibili crudelta'. Un altro elemento dell'insurrezione era rappresentato dalle rivalità fra famiglie, poichi in ciascun villaggio esistevano dei gruppi ostili che aspiravano a spodestarne altri che monopolizzavano il potere.
Era il caso di Regalbuto dove da decenni si contendevano il potere nel comune una fazione filoborbonica facente capo alle famiglie dei Carchiolo e dei Compagnini e una liberale guidata dagli Azzaro e dai Laguidara. Queste ultime famiglie promossero una rivolta il 25 gennaio 1848. Come si ricava dal resoconto sugli avvenimenti rivoluzionari di Regalbuto redatto, in modo quanto mai fazioso e parziale, dietro incarico del Comitato Centrale di Regalbuto in data 6 aprile 1848, da Raffaele e Salvatore Compagnini, Rosario Insinga e Francesco Stancanelli, la rivolta era scoppiata il 25 gennaio ed ebbe termine nella notte tra il 25 e il 26 marzo dello stesso anno, quando furono uccisi i capi dell'insurrezione ricorrendo ad ogni genere di crudeltà e violenza.
A Regalbuto già nelle rivolte del 1820 e del 1837 si erano avuti degli scontri fra queste due fazioni, ma "la battaglia finale" avvenne proprio nei primi mesi del '48. La notte del 25 gennaio il giudice del circondario era fuggito dal paese lasciandolo indifeso: "si tratto d'intimorire un popol tutto, e concertare una strage tale degli averi, delle persone, delle proprietà e della vita da non restare nemmeno solo uno che abbia potuto esser padrone d'un quadrino, e che abbia potuto almeno consolarsi sull'intatte figlie, sull'incontaminata moglie, e delle caste sorelle".
I rivoltosi sin dal 29 gennaio erano riusciti a sbaragliare i nemici. Armati di fucili, sciabole e pistole, con un prete che portava una bandiera tricolore e al suono di una banda, percorsero le vie del paese mentre un banditore annunziava "unione, fratellanza, amicizia e pace". Tra i primi atti presi dal Comitato Rivoluzionario vi furono "la soppressione dei dazi, la vigilanza dell'annona, e tolto il metodo delle statere stabilirono a grana dieci l'imposta sul macinato, severi doversi castigare i furti, ed ogni contravvenzione dei dati precetti". Inoltre si stabill l'obbligo di portare sul cappello il nastro costituzionale. I rivoltosi comandati dal conte Azzaro portavano come segno di riconoscimento la berretta bianca.
Nei primi giorni di febbraio fu pubblicato un bando con il quale si ordinava la consegna degli schioppi od altre armi da fuoco in possesso alla popolazione a Don Antonino Azzaro. I partecipanti alla rivolta furono un centinaio circa dei quali una ventina erano venuti in aiuto dalla città di Catania. I14 febbraio diedero alle fiamme i documenti della Percettoria e della Ricevitoria del Macino, e confiscarono gli introiti dell'Erario comunale. Il 5 dello stesso mese furono bruciati i registri della Cancelleria Penale e furono assaltate le case dei loro nemici. Le abitazioni di don Francesco Carchiolo e del sacerdote don Vincenzo e dei loro nipoti furono distrutte "con la scusa che detenevano un veleno o tosco che tenevano per dar la disfatta del cholera a tutto Regalbuto".
Nel frattempo erano state prese dal Comitato Rivoluzionario altre misure quali l'abolizione del dazio di 4 grani ogni rotolo di carne e fu stabilito l'obbligo ai ricchi proprietari della consegna di frumento in esubero per poter venire in soccorso, con una distribuzione pubblica, agli strati piy poveri della cittadinanza. Due anni di carestia avevano notevolmente peggiorato le condizioni di vita della popolazione locale e aumentato il malcontento degli strati piy poveri della popolazione contro l'aristocrazia terriera e contro coloro che detenevano il potere locale da piy decenni. Ma la reazione della fazione avversa dei Carchiolo non si fece attendere. Nella notte fra le ore 20 del 25 marzo e le 16 del 26, in sole 20 ore riuscirono ad avere ragione dei rivoltosi. Piy di 27 persone vennero uccise, mentre altre riuscirono a portarsi in salvo fuggendo dal comune. Fu una reazione quanto mai crudele e cruenta. Tra le vittime di quella notte si ricordano: Innocenzo e Agostino Azzaro; Vincenzo, Gaetano e Domenico La Guidara, Antonino, Vito e Domenico Vignera; il barone Buzzone, Giacomo Calascibetta, Francesco Strasoli, Nicolr Gandolfo; i due fratelli Costa Cutugni e Vito Naselli, Francesco Marcellino di Adrano, due donne di cui non si conosce il nome e Vito D'Agostino.
1860
L' 11 maggio 1860 Garibaldi sbarco' con i suoi volontari a Marsala. Fu l'inizio della liberazione della Sicilia dal potere borbonico e della conquista dell'unità nazionale. Fra gli elementi decisivi che portarono al successo tale operazione bisogna ricordare non soltanto la partecipazione diretta degli insorti isolani ma anche il generale clima rivoluzionario che si venne a creare in tutta la regione e che fu valorizzato dal Garibaldi.
Assunta la dittatura di Sicilia in nome di "Vittorio Emanuele re d'Italia", già il 17 dello stesso mese il dittatore promulgava l'abolizione dell'imposta sul macinato, che era stata introdotta nel 1564, e di qualunque imposizione del genere decretata dal governo borbonico dopo il 15 maggio 1849, e imponeva agli enfiteuti e agli affittuari dei beni appartenenti allo Stato di non pagare il canone o il prezzo di affitto.
La stragrande maggioranza dei contadini e delle masse popolari siciliane insorse contro il governo borbonico, con moti locali guidati da artigiani o borghesi. Erano moti insurrezionali che si svolgevano in forme quasi sempre analoghe, con la cacciata delle autorità municipali, la liberazione dei detenuti, la messa in fuga dei funzionari del macinato e infine l'inalberamento del tricolore sul municipio. Nei centri rurali divenne sempre piy netto e visibile il contrasto fra i ceti dei grandi proprietari, aristocratici e borghesi, e i contadini e i gruppi dei piccolo borghesi di contro. Inoltre Garibaldi con lo stesso decreto del 17 maggio aveva anche istituito, in ognuno dei 24 distretti in cui era divisa l'isola, un governatore come rappresentante del Capo dello Stato col compito di ristabilire in ogni comune, il consiglio civico e tutti i fun,zionari esistenti prima dell'occupazione borbonica, escludendone coloro che avevano favorito la causa dei Borboni o ne erano stati nominati. Il movimento di agitazione delle masse contadine si presentr in maniera estesa specie nel periodo fra il giugno e il settembre 1860. Nei comuni di Bronte, Biancavilla, Castiglione, Cesarr, Regalbuto, Centuripe, Maletto, Randazzo, Nicosia, Nissoria, Pedara, Cerami, Acireale e S. Filippo d'Argirr, facenti allora parte della provincia di Catania, le masse insorte e le squadre non si limitarono a disarmare le compagnie d'armi, le guardie daziarie e ad inalberare il tricolore sulla casa del comune, ma diedero la caccia ai funzionari pubblici, ne incendiarono le case e altrettanto fecero con i proprietari fautori dei Borboni e nemici della rivoluzione.
L'atteggiamento del Crispi, capo del Governo Provvisorio, e dei dirigenti dell'esercito garibaldino di fronte ai movimenti contadini e all'azione delle squadre era stato in realtà tutt'altro che di approvazione e di tolleranza. Col decreto del 9 giugno confermato da un'istruzione d el 19, si affermava che i reati contro la proprietà e le vite dei privati "nei tempi che corrono sono in verità reati contro lo Stato"; e in sostanza "una violazione dell'ordine pubblico e politico e provocar possono l'anarchia". Percir "occorreva disporre, in base ad una qualifica dei reati la punizione con la morte e, ricorrendo le circostanze, la fucilazione sul posto per i furti, le devastazioni, i saccheggi e le uccisioni".
Dopo la battaglia di Milazzo, Garibaldi che si trovava a Messina per preparare lo sbarco delle truppe a Reggio, affidr al generale Nino Bixio la "missione maledetta" - come quest'ultimo scriveva in una lettera alla moglie - "dove l'uomo della mia natura non dovrebbe essere destinato", la missione cioh di dare "un terribile esempio alla popolazione di quel paese (Bronte) e dei paesi vicini".
Il Bixio giunse a Bronte il 6 agosto. La missione che, assistito dal commissario straordinario il Barone Cusa, svolse a Bronte, Cesarr, Castiglione, Regalbuto, Randazzo ecc. ebbe sostanzialmente il carattere: o di una spedizione punitiva come e' per Bronte, o lo scopo di incutere il terrore in quegli altri centri nei quali sembrava già annunziarsi la rivolta. Nella sua lettera a Giuseppe Dezza (Bronte, 8 agosto 1860), il Bixio ci informa che "nuovi tumulti erano scoppiati in Regalbuto e minacce in Cesarr" e che il 9 dello stesso mese si era recato appunto a Regalbuto in carrozza per sedarvi la rivolta, cosl come e' riportato nella lettera al Governatore di Catania (Bronte, 10 agosto 1860), che attesta le azioni svolte in questi comuni.
Con fucilazioni immediate, giudizi sommari, condanne e arresti in massa, Bixio procedette rapidamente ristabilendo nei municipi di solito proprio i civili che erano stati gli eterni avversari delle rivendicazioni contadine e trasformando la guardia nazionale in un corpo di difesa di quei ceti.
La Sicilia dopo l'unità d'Italia
Il 21 ottobre 1860 ebbero luogo le votazioni plebiscitarie, indette da Garibaldi e che portarono con una maggioranza favorevole del 99,5% all'annessione del Regno delle Due Sicilie al Piemonte sotto il re Vittorio Emanuele.
Questa unificazione portr ad alcuni cambiamenti amministrativi e a degli innegabili miglioramenti, ma le relazioni sociali rimasero immutate nella societa' patriarcale dell'isola. I diritti semifeudali non scomparvero interamente anche se il feudalesimo era stato di già abolito. L'incesto restr comunque nelle campagne. Ogni "don" e proprietario era fatto oggetto di deferenza. I figli dovevano chiamare il padre "Eccellenza" e le mogli erano mantenute in uno stato di inferiorità. Inoltre ben poco fu fatto per i braccianti e i mezzadri che costituivano il grosso della popolazione. Dei benefici ricevuti, la libertà di stampa e di parola avevano ben poco significato per loro. Non avevano diritto al voto in quanto analfabeti, inoltre la classe dirigente non costruiva le scuole che li avrebbe messi in condizione di poter esprimere il proprio voto. Un altro elemento di disorientamento fu l'introduzione della legislazione anticlericale piemontese. Furono sciolti alcuni monasteri e confiscate le proprietà ecclesiastiche. Lo Stato cosl riuscl ad incamerare un decimo della superficie totale della Sicilia. I grandi proprietari terrieri siciliani furono entusiasti per l'immissione sul mercato di acquisto di oltre 250000 ettari di terreno, mentre i radicali speravano in un frazionamento dei latifondi ecclesiastici e ne chiedevano la distribuzione alle famiglie nulla,tenenti per porre rimedio alla perdita dei diritti di pascolo nelle terre comuni e per poter creare una classe di piccoli proprietari, e quindi dare al movimento patriottico piy profonde radici sociali tra il popolo.
Ma il risultato fu che un'enorme superficie agricola fu trasferita dalla Chiesa ai latifondisti e solo una piccola frazione andr ai nuovi proprietari o ai piccoli contadini. Il Governo inoltre invece di por rimedio alle rivolte del 1866, nel 1868 ripristinr la tassa sul macinato.
Cosi' come risulta dall'indagine Jacini, i tre quarti della Sicilia erano proprietà dei latifondisti. Nelle grandi proprietà i braccianti erano trattati come schiavi o animali. Malgrado il frazionamento dei latifondi appartenenti alla Chiesa, il numero dei proprietari continur a diminuire. Soprattutto durante i periodi di depressione agricola i contadini non poterono piy pagare ni gli interessi usurai sui debiti ne' le imposte, sicchi le loro proprietà vennero confiscate.
Le leggi sulla divisione e la distribuzione delle terre comuni dei villaggi, dopo decenni di inapplicazione, furono cancellate. Tutte le illecite privatizzazioni operate dai latifondisti furono ri spettate. Cosl mentre le famiglie ricche avevano tutto l'interesse nel mantenere intatti i possedimenti, le famiglie povere in genere erano costrette a dividere la terra fra i vari figli a causa dell'aumento demografico. Cosl le piccole proprietà diventarono sempre piu' piccole e meno produttive e le grandi rimanevano tali e quali o addirittura si estendevano. Da un lato il frazionamento delle piccole proprietà e dall'altro l'aumento della popolazione e dei consumi alimentari rendevano i latifondi progressivamente antieconomici, mentre il reddito per ettaro diminuiva e rendeva necessario l'importazione di grande quantità di cereali. Anche dopo il 1876, con l'ascesa al potere della Sinistra, la Sicilia non conobbe miglior sorte, anche sotto la direzione di due siciliani: Crispi e Di Rudini.
I Fasci Siciliani
Assente l'aristocrazia, la classe dominante era composta da un ristretto numero di ricchi proprietari terrieri e di grossi gabelloti, che esercitavano con durezza e disprezzo il loro dominio sulle classi subalterne. Contro questo strapotere delle classi dominanti si comincir a diffondere l'agitazione nei villaggi siciliani ad opera di alcuni gruppi o "fasci" che iniziarono a costituire una forma embrionale di movimento sindacale. Alcuni dei primi fasci erano simili alle antiche corporazioni: si interessavano di assicurazioni contro le malattie, per i funerali, ecc. Alcuni erano diretti da socialisti, altri erano semplicemente un elemento nel quadro della lotta fra le fazioni che si svolgeva in ogni villaggio per controllare il potere comunale. Ma in genere erano portavoce del disagio delle classi inferiori che scoprirono il modo di organizzarsi contro le privatizzazioni illegali. Non solo contadini poveri ma anche larghe fasce di ceti medi ne facevano parte. Un nuovo blocco sociale alla cui testa spesso si trovavano il ceto degli intellettuali di paese (il medico, l'insegnante elementare, il farmacista, l'avvocato).
Nel giugno del 1893 erano già sorte centosedici associazioni in Sicilia. Una sezione dei Fasci dei Lavoratori fu fondata a Regalbuto il 21 maggio 1893. Presidente ne era il dottore Nunzio Caruso che fu accusato dalle autorità di cospirazione, istigazione a delinquere ed eccitamento alla guerra civile, ma che uscl assolto dal processo che gli fu intentato dal Tribunale di Messina per l'inesistenza dei capi d'accusa.
"La sempre crescente organizzazione ed azione dei Fasci dei Lavoratori in questa provincia non pur destare che preoccupazione, essendo a tutti noti i fini sovversivi dell'ordine sociale e delle istituzioni a cui essi tendono sotto la maschera insidiosa di giovare alle sorti delle classi operaie" cosl si esprimeva l'allora prefetto di Caltanissetta, e consapevole di tale tesi era anche il Crispi, allora primo ministro, che attur una politica dl energica repressione nei confronti di questo movimento, con l'invio della flotta e di trentamila soldati per sedare la rivolta. Non importava che la maggioranza dei fasci non si fosse ribellata, ni che alcuni avessero tentato di impedire le violenze politicamente, d'accordo con i grandi proprietari, era opportuno sopprimerli tutti ed ottenere severe condanne dai tribunali militari nei confronti del De Felice e degli altri capi della Sinistra.